4 Settembre 2025 -

ELISA (2025)
di Leonardo Di Costanzo

«Esprimo quello che ho sempre pensato, che ci sia ben poco merito nella virtù e ben poca colpa nell’errore, anche perché non ho ancora capito bene, malgrado i miei 58 anni, che cosa sia esattamente la virtù e che cosa sia esattamente l’errore»
Fabrizio De André

Le cronache del tempo datano al 13 maggio 2009 la scomparsa inizialmente non denunciata da Cirimido, in provincia di Como, della trentanovenne Maria Rosa Albertani, per poi ricostruire come più probabile giorno del suo brutale omicidio il successivo 24 giugno ed essere concordi nel riportare il 14 luglio come data del macabro ritrovamento del suo cadavere carbonizzato sul retro della vecchia abitazione in vendita della sua famiglia. Autrice del gesto, come si evincerà dall’arresto del seguente 7 ottobre e dalla condanna a vent’anni senza essere riusciti a ricostruire un reale movente, la sorella minore Stefania, che al momento del processo nulla ricordava dei fatti come una sorta di dottor Jekyll inconsapevole del suo Mister Hyde, e che solo dopo lunga terapia riuscirà negli anni a riacquisire consapevolezza della sua responsabilità e forse proprio per questo a cambiare, a ritrovarsi, a riscoprirsi umana senza mai dimenticare il mostro. Con ogni evidenza, l’aspetto della “storia” che più interessa all’occhio antropologico, sociale e in ogni senso appunto umanista di Leonardo Di Costanzo, che con questo suo nuovo Elisa, in perfetta continuità con il suo cinema di reclusi, ragiona ancora sul carcere questa volta non più come interazione personale che diventa intimità e annullamento di ogni classe sociale ma come possibile metamorfosi, come rieducazione, come recupero, come reale reintegrazione personale e sociale di esseri umani che tali rimangono anche dopo un delitto che spesso, nel costante riemergere dei sensi di colpa, è già loro (eterno) castigo molto più di qualsiasi possibile incrocio di sbarre. È per questo che, per quanto il film sia dichiaratamente poggiato sul delitto di Cirimido e sulla ricostruzione a tappe riemersa dai dialoghi di Stefania Albertani con i criminologi Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali, confluiti nel 2022 nel libro Io volevo ucciderla – Per una criminologia dell’incontro (e in qualche modo anticipati nel 2014 dall’intervista di Franca Leosini, andata in onda fra le Storie maledette di Rai Uno, a una Stefania Albertani finalmente in grado di ricordare e forse in qualche modo di convivere con il suo gesto), sin dal cambio dei nomi di tutti i protagonisti il punto di Leonardo Di Costanzo non è ricostruire quella vicenda. O meglio, inevitabilmente lo fa, fra la dialettica e una serie di flashback con cui dolorosamente fare riavvicinare la protagonista alla verità personale, familiare, economica ed esistenziale del delitto che entrano ed escono con tocchi cinematografici, specularità e limiti del campo anche piuttosto raffinati; eppure interessano solo relativamente le cause scatenanti e la cronaca di quello specifico evento, come pure interessa solo relativamente il percorso di riscoperta in quanto tale. Quello che conta è la potenzialità paradigmatica e dialettica di un caso di cronaca nera che, riscritto nella finzione cinematografica e in una storia-altra, permette di indagare l’effetto profondissimo e detonante che una presa di coscienza, una consapevolezza di volontarietà del gesto estremo e di compresenza di un lato oscuro da (ri)conoscere imparare a controllare, può avere su un animo umano. Un po’ come se quella domanda che la Elisa Zanetti di Barbara Ronchi rivolge un po’ piccata al criminologo, ma anche un po’ psicologo, cui dà corpo il sempre bravo franco-marocchino Roschdy Zem, «che cosa la spinge a incontrare persone come me?», racchiudesse in qualche modo l’intero senso del cinema di Di Costanzo, che partendo dagli intrecci più ramificati e ambigui della camorra de L’intervalloL’intrusa ha poi deciso di scavalcare il muro ed entrare nei penitenziari per guardare direttamente ai colpevoli e per questo (in)evitabilmente reietti, e magari al loro ritrovarsi in qualche modo vittime del proprio essere (stati) carnefici, per cercare in qualche modo e con rispetto non necessariamente di perdonare ma per lo meno di comprendere l’unicità di ogni persona, e che cosa possa averla spinta – anche quando le stesse guardie carcerarie non riescono in alcun modo a far corrispondere il detenuto calmo ed educatissimo con cui hanno quotidianamente a che fare con l’orrore che ha commesso e l’immagine che ne danno i giornali – a compiere il Male.

Un (per adesso) dittico che prima, in Ariaferma, lasciava ‘la colpa’ del tutto fuori dal campo per concentrarsi sui rapporti personali fra i detenuti e magari qualche guardia, e che ora invece con Elisa, presentato all’82esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia e da subito in sala, quasi al contrario la rimette (letteralmente) al centro di ogni discorso per guardare oltre, all’umanità del reo, in un sostanziale controcampo uguale e opposto che, da qualche parte fra spazi ed emozioni, ragiona sulla dialettica attraverso la dialettica, ma anche sulla coscienza e sulla responsabilità come (uniche?) possibili ancore di salvezza e come necessario primo passo verso la redenzione. Viene da qui – e non solo dall’evidente respiro internazionale con cui Leonardo Di Costanzo cerca di ‘ingrandire’ il suo cinema con star internazionali e buona parte dei dialoghi in francese, trovando forse anche per questo quel concorso principale al Lido che con ogni probabilità avrebbe meritato ancora di più quattro anni fa quando Ariaferma venne relegato al fuori competizione – la scelta di spostare le disfunzionalità familiari, il fallimento dell’azienda di famiglia, le false lettere con cui stringersi da sola all’angolo e gli omicidi con falò più e meno riusciti del caso Albertani qualche chilometro più a nord, oltre le dogane di una Svizzera che è co-produttrice ma in qualche modo anche co-protagonista nei suoi istituti di detenzione sperimentali finalizzati non tanto a punire quanto a redimere e realmente reinserire i detenuti nella società. Una filosofia sulla quale ripensare il senso stesso del carcere immaginando un penitenziario-modello, sicuramente esasperato nel suo totale distacco dai cliché di reclusione ma in sostanza non così dissimile dall’idea di quella che dovrebbe essere la missione della prigione, chiuso da un ovvio recinto con telecamere eppure in gran parte all’aperto, con una manciata di celle-chalet immerse nella Natura e con un’università interna frequentata anche da studenti non detenuti, con incontri liberi non in parlatorio ma su una panchina, con ovvie regole interne e con ovvia sorveglianza ma con una relativa libertà e con una dignità impensabili da questa parte del confine. Un luogo in cui non semplicemente soffrire come mera espiazione, ma affrontare un percorso per poterne prima o poi uscire differenti, migliori, realmente riscattati e pronti alla vita. Un luogo nel quale imparare a comprendere il Male primigenio che brucia da qualche parte nel fondo di ogni essere umano, per fare i conti con la propria responsabilità e tenerla sempre presente ma non per questo diventare solo la propria colpa. Un luogo in cui permettere all’immaginaria Elisa Zanetti ricalcata sull’ombra di Stefania Albertani di (ri)scoprirsi «liberamente obbligata» dalle aspettative della famiglia, ossessionata dal fallimento dell’azienda come fallimento personale, ripetutamente repressa e poi esplosa nel modo più impensabile per negare infine l’evidenza anche e soprattutto a se stessa, e ora impegnata in una dolorosissima riemersione del conscio e dell’inconscio fino a farli diventare piena consapevolezza di se stessa e delle proprie contraddizioni. Le stesse contraddizioni che, inevitabilmente, stanno nell’ambiguità degli uomini e delle culture, in ogni morale, nel lavoro stesso con i carcerati, nei possibili rovesci della medaglia in cui – e qui è fondamentale il personaggio di Valeria Golino, breve e intensissimo nel suo monologo che in un ribaltamento del punto di vista distrugge ogni possibile supposta certezza – a ogni persona che ha sbagliato e che è giusto aiutare a capire e rinascere possa corrispondere una madre che per quel gesto ha perso senza motivo l’unico figlio, e che magari ha bisogno dell’odio nei confronti dei suoi assassini per continuare a vivere senza abbandonarsi alla totale disperazione. Elementi di una sceneggiatura, scritta a sei mani dallo stesso Di Costanzo con Bruno Oliviero e Valia Santella, forse alla lunga un po’ schematica nel suo alternare incontri detenuta/criminologo (e quindi dialoghi o magari pagine consegnate per iscritto quando i ricordi si fanno troppo dolorosi) e flashback con cui ritornare al passato, eppure sin dalla lezione iniziale, in cui i sorrisi felici di un villaggio negli anni Trenta si rivelano la soddisfazione popolare di fronte all’orrore del linciaggio di due afrodiscendenti, sempre pronta a problematizzare ogni passaggio e soprattutto a interrogare apertamente i personaggi e lo spettatore, a guardarli negli occhi e a metterli di fronte a ciò che siamo, al lato chiaro e al lato oscuro, al Bene e al Male di tutti noi. Alla necessità di conoscere e di comprendere l’abisso per imparare a controllarlo.

Marco Romagna

“Elisa” (2025)
105 min | N/A | Italy / Switzerland
Regista Leonardo Di Costanzo
Sceneggiatori N/A
Attori principali Valeria Golino, Roschdy Zem, Barbara Ronchi
IMDb Rating N/A

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