Non è facile scrivere di un film girato sul tuo territorio, tanto più se a girarlo è una persona con cui hai avuto modo di dibattere per ore ed ore su questo e mille altri argomenti. Forse però proprio per questo mi son sentito “in piacere”, e non certo “in dovere”, di riflettere riguardo Bormida, viaggio sentimentale e rigoroso di Alberto Momo in un luogo martoriato attraverso un Popolo che decise, e decide tutt’oggi, di resistere. La Bormida, al femminile, è un fiume, ma allo stesso tempo è un paesaggio, è una comunità, è un frammento di realtà i cui argini sono le storie di ogni persona che lo ha attraversato, lo attraversa e lo attraverserà. Vive un passato stratificato e complesso, spesso luminoso e fecondo fino a quando non fu violato, e vive un presente doloroso con un futuro quanto mai incerto.
La Bormida è, in un certo senso, il fiume di Luigi Tenco, di Norberto Bobbio e di molti altri personaggi che in quelle acque riflettevano speranze, sogni e idee. Ed è senza alcun dubbio il fiume di Cesare Pavese [«…In paese non sarei stato mai altro che un servitore, che un vecchio Cirino (anche lui era morto da un pezzo, s’era rotta la schiena cadendo da un fienile e aveva ancora stentato più di un anno) e allora tanto valeva provare, levarmi la voglia, dopo che avevo passata la Bormida, di passare anche il mare. – Ma non è facile imbarcarsi, – disse Nuto. – Hai avuto del coraggio…», da La luna e i falò, Cap. XXVI], e di Beppe Fenoglio [«…Ora la strada sale in metà della vallata. Vento sì, ma ce la fa appèna a spettinarmi. Non riesco a scorgere, lassù, dove il cielo s’attacca alla collina. Queste cominciano ad essere le Langhe del mio cuore: quelle che da Ceva a Santo Stefano Belbo, tra il Tanaro e la Bormida, nascondono e nutrono cinquemila partigiani e gli offrono posti unici per battagliarci…», tratto da Appunti partigiani 1944-1945]. Tanto che, pubblicato nel febbraio ’63 a pochi mesi dalla sua morte, lo scrittore di Alba all’interno dello splendido Un giorno di fuoco cantava il dramma di quel fiume [“Hai mai visto il Bormida? Ha l’acqua color sangue raggrumato, perché porta via i rifiuti delle fabbriche di Cengio e sulle sue rive non cresce più un filo d’erba. Un’acqua più porca e avvelenata che ti mette freddo.”].
Già, l’acqua «porca e avvelenata». Perché in mezzo, in quella (doppia) Bormida che nasceva al sud dell’Appennino Ligure per sfociare a nord come affluente del Tanaro, ci fu l’ACNA in quella di Millesimo, e la Ferrania – con la Montedison – in quella di Spigno. Già dagli anni Sessanta, come racconta mio padre di Bistagno (paesino in cui i due rami del fiume confluivano) si accettavano scommesse sul colore del fiume all’alba, prima di andare a scuola. Normalmente era rossa, quasi granata, melmosa e odorosa. Poi vennero i Settanta, in cui il disastro, in special modo dell’ACNA di Cengio, era già noto, ma è solo nel 1987 che venne fondata a Saliceto l’Associazione per la Rinascita della Valle Bormida, il primo passo della più importante battaglia ambientale italiana di quegli anni.
Il film di Alberto Momo inizia con tinte e sonorità mistiche e orrorifere, quasi mutate dallo stesso percolato che ha lasciato ormai il deserto sulle rive e il fondo del fiume. Poi scorrono le immagini dell’Archivio Nazionale Cinema d’Impresa di Ivrea (riguardanti la Ferrania e l’ACNA di Cesano Maderno, mentre quelle di Cengio sono ancora inaccessibili), in uno splendido technicolor e condite da quell’aurea positivista legata al progresso avanzato che l’industrializzazione avrebbe dovuto portare in queste zone considerate economicamente depresse e forse arretrate. Da quei frammenti parte la riflessione di Momo, coadiuvato da Laura Cantarella attraverso le scatole di Maria Garbarino (deceduta due anni fa, a cui il film è dedicato) che nascondono i frammenti di una lotta nella speranza di veder finalmente quella Valle Bormida pulita.
L’approccio, a tratti visionario ed estetizzante ma sempre rigoroso nella ricostruzione, è quello della mappatura spaziale e formale della Valle; una cartografia dalla splendida fotografia di campi lunghi e distesi verso la piana, treni che si appoggiano alle colline, tortuose stradine che percorrono l’Appennino. Il movimento, interno ed esterno scandisce anche la vertigine temporale che segna da più di trent’anni la lotta. Spesso la macchina da presa è accompagnata, altre volte è solitaria a descrivere il vuoto e il silenzio alle pendici di un diga deserta come nei boschi che pian piano scendevano verso riva. Il montaggio accelera quando rimangono l’uomo e le strutture, la fragilità di ciò che resta in una narrazione prima sensoriale e poi emozionale; quasi fosse lo stesso tempo oramai a sedimentarsi con il percolato e tutte le altre scorie. L’ACNA ora è chiusa, ma l’urgenza resta per quella criticità e per altre che potrebbero minacciare questa zona – vedi la possibile nascita di una discarica di rifiuti tossici sulla falda di Sezzadio, più a valle, a fianco della Bormida – e che la portano a essere considerata come una sorta di terra dei fuochi installata nel mezzo del nord-ovest italiano.
L’importanza di Bormida – realizzato con il supporto del fotografo Andrea Botto e dai fotogrammi dipinti da Paolo Leonardo in collaborazione con un gruppo di studenti del Politecnico di Torino che hanno partecipato al workshop “Paesaggi audiovisivi e altre contaminazioni”, descritto in questo link – è dunque la resistenza di un’urgenza, e in senso più documentale è la persistenza di un’avanguardia civile e popolare pronta a una battaglia non violenta per la conservazione di un territorio. Il ritorno alla regia – esclusi i lavori istallativi e d’architettura – di uno dei più interessanti autori indipendenti dell’avanguardia italiana è uno sguardo tra gli sguardi di fantasmi, quelli dei malinconici attivisti, dell’agronomo quasi disilluso, di tutte le bestie che ancora vivono di fianco al fiume. Un detour di sentieri possibili e utopici, nel tentativo di intravvedere un futuro legato alla riqualificazione ambientale e umana che possa proprio partire da quelle persone che trent’anni fa iniziarono quella marcia. Nelle ultime sequenze, chiuse forse troppo rapidamente rispetto al senso splendido del flusso in cui siamo immersi, questo ritratto di quella Valle violentata e ferita prova a tornare alla sua vita agreste; quasi come se una durata intima e profonda potesse cancellare quella parentesi drammatica per far tornare quei giorni in cui le macchine dell’uomo erano lontane, giù in città. Cinema come macchina dello spazio, attraverso il tempo.
Erik Negro