18 Maggio 2024 -

BIRD (2024)
di Andrea Arnold

È forse ad oggi il punto più alto della carriera di Andrea Arnold, il suo nuovo e semplicemente bellissimo Bird. Un film che rappresenta la quintessenza più lucida e commovente dello sguardo dell’autrice di Dartford tanto sui turbamenti dell’adolescenza quanto sul disagio sociale della suburbia sottoproletaria britannica, e che al contempo innerva la sua poetica della dimensione fantastica di un inedito realismo magico che sembra giungere in volo da qualche parte fra Cesare Zavattini e Alice Rohwacher, o forse direttamente dal cielo, verrebbe per molti versi da dire sopra Berlino, per cambiare (nemmeno troppo) improvvisamente registro e compiere in pochi battiti d’ali il suo piccolo miracolo (del cinema). Del resto sembra proprio un angelo custode un po’ inquietante, il vagabondo Bird cui dà corpo e spigoloso volto da rapace uno straordinario Franz Rogowski che con Barry Keoghan fa da chioccia a un folto gruppo di giovanissimi esordienti non professionisti, quando durante la notte si alza in piedi sul tetto della casa di fronte. Il suo incontro apparentemente casuale con la dodicenne protagonista sarà il punto di innesco di un coming of age collettivo in cui a crescere non sarà solo la giovanissima Bailey ma anche e soprattutto la sua famiglia disfunzionale, dall’immaturo padre trentenne e piccolo spacciatore Bug che fra infedeltà e festini in squallide case occupate cresce da solo i figli senza esserne mai stato in grado al fratellastro Hunter che a 16 anni ha seguito le orme paterne mettendo incinta la ragazza di 14, dalla nuova fidanzata (a sua volta con pargoletta) che questa volta il padre sembra realmente deciso a sposare nonostante le opposizioni della protagonista fino alla madre che dall’altra parte della cittadina convive con un violento prevaricatore ignorando o quasi sia Bailey sia gli altri figli rimasti con lei. Personaggi che Andrea Arnold, in un arco temporale di pochi giorni, unisce in percorso corale di evoluzione (inter)personale da condividere insieme proprio come è un atto corale e condiviso quello di fare cinema, al punto che come già in American Honey la regista e sceneggiatrice sceglie di non firmare il suo film nei titoli di coda, preferendo accreditare come lunga lista di autori tutti coloro che collettivamente hanno collaborato alla realizzazione senza alcun tipo di distinzione di ruolo fra attori e maestranze, allo stesso modo coinvolti in un lavoro di gruppo che non sarebbe stato possibile, o per lo meno non sarebbe stato uguale, cambiando anche solo una tessera del mosaico. Lo stesso motivo, o per lo meno uno fra i motivi, per cui nelle magnifiche immagini sature in 4/3 Super16 che incorniciano Bird fra l’ombra laterale delle due perforazioni e la luce che filtra in basso da qualche millimetro non mascherato del fotogramma successivo (poi gonfiate e proiettate qui sulla Croisette, dove il film è stato presentato in concorso al 77mo Festival di Cannes candidandosi prepotentemente per qualche premio importante, in un abbacinante 35mm), irrompe a più riprese lo schermo verticale dei video girati direttamente dalla Bailey di Nykiya Adams, ora proiettato da lei stessa su un muro e ora direttamente circondato da nero, meta-sguardo sul confine fra finzione e realtà come le videocamere di sorveglianza di Red Road ma soprattutto come un cambio di punto di vista con cui la regista si avvicina ancora di più alla propria protagonista, al suo modo di vedere, al suo immaginario, al suo disagio esistenziale. Alla drammatica realtà sociale e familiare dell’ambiente in cui vive, che Andrea Arnold dipinge sì impietosamente e con precisione quasi documentaria fra murales, tatuaggi in faccia, rospi allucinogeni, cocaina, baby gang, bagni in comune, minacce, spedizioni punitive e violenze domestiche assortite, ma che al contempo re-innerva di luce e di speranza tanto nelle aperture improvvise sui fiori o sugli animali quanto nella fantasia, nel prodigio, nell’inspiegabile che accade davanti ai propri occhi. Nella fiaba.

Basterebbe forse la leggiadria con cui, memore di Cow, lo sguardo di Andrea Arnold si posa sui fiori, sugli insetti, sui cavalli, sulle farfalle fra le dita, sugli uccelli in volo, perfino sul vento che schiaffeggia l’erba durante una nottata all’addiaccio. Basterebbe forse l’utilizzo che fa della colonna sonora brit-post-punk (clamorosa, ma non è questo il punto: semmai lo è come la musica venga in qualche modo sempre imposta dal padre alla figlia fra l’incomunicabilità e qualche inaspettata sintonia), che parte da “Too Real” dei Fontaines D.C. ascoltata a tutto volume dal genitore in monopattino per poi trovare il momento più commovente del film in un’altra corsa in monopattino, questa volta tutti insieme, tutti più grandi e tutti migliori, nella quale “Lucky man” dei Verve sarà finalmente quella «dad music» con cui segnare la (ri)nascita di un padre (forse nonno) e di una serenità familiare. Basterebbero forse il pudore e la tenerezza con cui la regista mette in scena la prima mestruazione della protagonista, fra un lenzuolo che si macchia di rosso e l’occasione per trovare per la prima volta una connessione con quella donna di poco più anziana destinata ormai a diventare matrigna, oppure il suo primo trucco allo specchio del bagno in comune dello squat abusivo in cui vive fra povertà e disagio sociale, o ancora quel piccolo gesto di ribellione di tagliare i suoi vaporosi capelli afro. Basterebbero i brevi flashback di piccoli e grandi salti temporali, la fisicità granulosa della pellicola, i ricordi come audaci salti di montaggio, la maniacale cura fotografica ma soprattutto (po)etica di ogni singola inquadratura, il dolore fisico attraverso il quale assicurarsi di esistere o i karaoke con cui rendersi conto di un affetto inaspettato, e poi le corse folli al termine delle quali scoprirsi diversi, più grandi, più vivi, più maturi, più dolci. Ma soprattutto basterebbero i momenti in cui il realismo lascia spazio al fantastico, fra un messaggio che solo il volo di un merlo può consegnare dalla finestra e un violento litigio casalingo per il quale serviranno invece molti più muscoli e molte più piume. Da un cinema minimale di emozioni e drammi sociali alla spettacolarità anche violenta del fantasy, prima preannunciato e poi fatto improvvisamente deflagrare sullo schermo, passando per la chiave di volta, come si diceva, di un incontro apparentemente casuale. Un uomo sconosciuto e bizzarro, (ibrido) freak che si muove un po’ scattoso in gonna e sandali e che appare dal nulla con un vecchio indirizzo in tasca e apparentemente nessuno al mondo: si fa chiamare Bird, e proprio come un uccello sembra essere atterrato da chissà dove, alla ricerca di un padre dal quale crede di essere stato abbandonato e invece convinto da sempre che sia morto, mentre il padre di Bailey sa benissimo che la figlia è viva ed è affidata a lui, ma fra droghe, fidanzate e amici di discutibile moralità non riesce in alcun modo ad avere con lei alcun tipo di dialogo costruttivo, e forse nemmeno se ne cruccia più di tanto. Gli importa davvero solo che a fine settimana sia regolarmente presente al suo matrimonio, vestita di quell’abito kitsch in viola leopardato che gli sposi hanno deciso di imporre a tutte le damigelle, e che Bailey invece si rifiuta persino di provare. La macchina a mano di Andrea Arnold ama indistintamente tutti i suoi personaggi e li pedina nell’ambiente, da qualche parte fra il nitore politico britannico di Ken Loach e le fasi sentimentali e della vita dell’Antoine Doinel più e più volte cresciuto nel cinema di Truffaut, fra un fiabesco deux-ex-machina à la Koberidze e forse anche un occhio (o meglio, letteralmente due, e sempre di Rogowski) perfino al Giacomo Abbruzzese di Disco boy, fino a ritrovare quello stesso vestito felicemente addosso a una Bailey scatenata nel ballare “Cotton Eye Joe” e a festeggiare la nascita di una famiglia. Conscia, al termine di un racconto struggente e dolcissimo, che anche per lei può esistere un posto nel mondo, che anche nella sua quotidianità apparentemente squallida possono celarsi il sogno e la poesia, che anche nella sua casa sfasciata può esistere l’affetto di un focolare domestico. Serviva, a lei e agli altri, ridiscutere i rapporti umani e forse per la prima volta da tutte e due le parti realmente maturare e capirsi, serviva, a lei e agli altri, vivere le necessarie esperienze e fronteggiare a testa alta le necessarie paure, serviva, a lei e agli altri, (ri)scoprire proprio da quello che sembrava il fondo del sudiciume sociale e morale il valore della dolcezza, dell’amorevolezza, dell’unione familiare. Serviva conoscere e sperimentare la riconoscenza, l’aiuto reciproco, il senso più profondo di un segreto da tenere e di un segreto da svelare; serviva conoscere e sperimentare la salvezza, la consapevolezza, la speranza. Serviva un’apparizione, serviva un trauma, serviva una mutazione, serviva una corsa alla stazione con il terrore non fare a tempo. Serviva la sincerità di un abbraccio, (finalmente) fratello e sorella, (finalmente) padre e figlio, (finalmente) padre e figlia, (finalmente) madre e figlia, e poi amico angelico destinato a volare via ed ex bambina ormai pronta per essere donna. Il (piccolo, grande) cinema, ancora una volta, ha compiuto il suo miracolo. Basta non smettere mai di sognare, tutti insieme.

Marco Romagna

“Bird” (2024)
119 min | Drama | United Kingdom / United States / France / Germany
Regista Andrea Arnold
Sceneggiatori Andrea Arnold
Attori principali Barry Keoghan, Franz Rogowski, James Nelson-Joyce
IMDb Rating 6.9

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