La sequenza con cui si apre Beetlejuice Beetlejuice è un lungo titolo di testa dal lettering gotico pacchiano che si staglia su una serie di inquadrature aeree su luoghi conosciuti molto bene da chi si ricorda il film precedente (Beetlejuice, 1988): la casa infestata dei Deetz, in cui il demone Betelgeuse (“spiritello porcello” nel sottotitolo italiano, Michael Keaton) ha aperto un portale per l’Aldilà — in una favola per (più o meno) adulti volgare, cinica, il cui climax cartoonesco è un set-piece coloratissimo attorno a una cerimonia matrimoniale tra Betelgeuse e una giovanissima, minorenne Lydia Deetz (Winona Ryder). Una violenza sessuale all’acqua di rose, esorcizzata con le idiosincrasie dell’immaginario. Ma quella che vediamo nei succitati titoli di testa di Beetlejuice Beetlejuice di non è davvero la casa infestata. È il modellino della casa, che si trova dentro la casa, è un McGuffin (il modellino è proprio esso stesso il portale per l’Aldilà aperto da Betelgeuse) e nel contempo una pantomima di un establishing shot. Invece di stabilire lo spazio dell’azione come un incipit hollywoodiano di tutto rispetto, la macchina da presa si diverte a prendere in giro lo spettatore, a creare subito un giocoso senso del ridicolo. Tra i primi film di Tim Burton, tutti atipici e mirabolanti esempi di creatività istintiva al punto da essere quasi incontrollata, Beetlejuice è il più scorretto e sgradevole, quello che alterna i toni in modo più sbilanciato – e fiero di esserlo. Il personaggio titolare è stato scritto da Michael McDowell, morto prima dei 50 anni mentre ancora preparava un seguito al film originale; e non è il protagonista, ma neanche l’antagonista, si muove tra un’inquadratura e l’altra come un’interferenza sopraggiunta durante il montaggio, in mezzo a una trama che altrimenti scivolerebbe liscia come l’olio quasi come un accomodante film disneyano. L’interferenza del grottesco, vera personificazione di un’umanità atroce che uccide, tortura psicologicamente e molesta le donne, è però comunque, nei pochi minuti in cui appare, una sorta di spalla comica – che fa esplodere la realtà a suo piacimento come un personaggio dei Looney Toones è capace di distruggere le leggi della fisica. Il tema comune di molti di questi film iperbolici con cui Tim Burton ha dato inizio alla propria carriera è l’accettazione della morte (Edward mani di forbice, Sleepy Hollow, Ed Wood, persino i Batman e soprattutto il secondo), e mai come in Beetlejuice ciò è rappresentato senza astrazioni dell’esperienza, con il registro della farsa, espresso in luci, scenografie e ritmi paonazzi. L’aldilà è un paese dei balocchi in cartapesta, una montagna russa in un mondo dove l’assurdità della morte è la fonte principale di divertimento, anche perché persino dove le anime vengono traghettate senza più essere vive ci sono i difetti più insopportabili della società civile, la burocrazia, l’incompetenza, l’inumanità. Dal ‘bambino ostrica’ ai più recenti successi di alto budget con Disney, l’immagine burtoniana è mutata drasticamente fino a diventare manierismo, ma nel suo caso è anche più complesso di così: emulare le forme e i colori dei successi passati ha creato un profluvio al punto di un senso d’incoerenza, di sciupamento, di putrefazione. Per un artista e scrittore talmente appassionato dalla morte, c’è anche un che di poetico… la personalità scompare, rimane un’ipotesi di energia che si esprime per tentativi, come usando il defibrillatore su un corpo morto e resuscitandolo ogni tanto.
Ci sono stati poi il remake di Dumbo, e il più o meno inaspettato successo “virale” della produzione Netflix di Wednesday, spin-off della ‘famiglia Addams’ che ha lanciato Jenna Ortega tra le giovani star contemporanee, e l’idea di un Tim Burton hollywoodiano ha continuato ad affermarsi e riaffermarsi con budget altissimi e ricezioni critiche basse, con un viavai di aspettative caotico. Depp e l’ex-compagna di vita Helena Bonham Carter non sono più i suoi collaboratori più stretti, e anche i protagonisti effettivi del primo Beetlejuice, che non sono i Deetz ma i Maitland (Alec Baldwin, Geena Davis), non sono tornati in questo sequel – un’idea produttiva di cui non si capisce troppo il senso al di fuori della nostalgia. Con un budget iperbolico di circa 150 milioni di dollari, la morte di McDowell e mille altri fattori contraddittori, potrebbe essere l’ennesima reiterazione, un masso di Sisifo che con l’ultimo sforzo crolla in fondo alla montagna in faccia allo spettatore più stanco. E a guardarsi attorno dopo le prime proiezioni veneziane, dove Beetlejuice Beetlejuice ha aperto fuori concorso l’edizione numero 81, sì, lo spettatore più stanco è stato spesso tramortito dalle idee kitsch, dalla progressione algoritmica della trama, dal fuori tempo massimo del progetto. Un prodotto popolare che per provare a riunire le generazioni si aggrappa a ogni scena per cercare la potenzialità di una nuova gag, di una nuova trovata, di un’attualizzazione, quando prendendo e quando mancando il segno. Tuttavia, come in Frankenweenie, l’altra operazione-nostalgia per i fan di Tim Burton (in quanto Tim Burton e non in quanto regista che entra di soppiatto in franchise decennali), l’autore americano riesce a esplorare questi terreni già solcati riuscendo a concatenare scena dopo scena in un marchingegno spesso banale ma mai noioso. In quest’epoca di seguiti tardivi, reboot e spin-off, Beetlejuice Beetlejuice già dal titolo si specchia nel primo film, con un effetto analogo al ritratto di Dorian Gray: il tema della morte sempre presente mette in risalto le nuove rughe sui volti dei personaggi che conosciamo. Michael Keaton nel frattempo ha sia fatto Birdman che interpretato di nuovo Batman, Winona Ryder non solo non è decisamente più una ragazzina «not like other girls» ma ha anche avuto un’intera carriera che solo di recente è rinata con Stranger Things, e al cast si aggiungono Willem Dafoe, che negli ultimi anni è l’attore cinematografico più simile al prezzemolo (va bene ovunque, anche nei film brutti), Jenna Ortega come effettiva nuova protagonista, Justin Theroux, e infine Monica Bellucci, nuova compagna di Tim Burton, in teoria antagonista del film ma in pratica poco più che un cameo. In breve: Lydia Deetz è diventata una medium televisiva di fama nazionale. È circondata dalla morte, del marito e del padre, con una figlia (Ortega) che la snobba e non crede alle sue visioni, e un nuovo compagno (Theroux) che le fa un sacco di promesse ridicole e si comporta come un verme. In questo momento di vulnerabilità, attorno al funerale del padre e al matrimonio col suo nuovo amore, ricomincia ad avere visioni di Betelgeuse, e parlandone con le persone attorno a sé finisce naturalmente per re-incontrare il suo incubo, che sta scappando dalla sua ex-moglie (Bellucci), in una rocambolesca avventura di fantasmi e quant’altro.
In una storia che chiunque avrebbe potuto agilmente tramutare in tragedia, la trama umana non è mai presa sul serio, e ogni ruolo sociale è ridicolizzato con la beatitudine ingenua delle favole, ma in un modo che rivela i cinismi con plateale divertimento. Tra le trovate notevoli: una scenografia dalle prospettive insensate che ricalca il Caligari di Wiene, sequenze che mischiano slapstick e horror (come nella scena migliore del film: l’introduzione del personaggio di Monica Bellucci, che si ‘ricompone’ dai pezzi trucidati del suo cadavere), una breve analessi sulla vita da umano di Beetlejuice narrata in italiano, scene in stop-motion e in CGI alternate, e anche una storia d’amore adolescenziale che sembra sempre stare per diventare stereotipo ma più facilmente diventa una parodia drammatica di se stessa, tra baci volanti con in sotto fondo i Sigur Rós e una parodia dell’insopportabile scena degli Smiths di 500 days of summer che sostituisce gli Smiths con Dostoevsky. Il mondo materiale è una barzelletta, in costume, bloccata nel tempo, in un film del 2024 che è come se se ne vergognasse e volesse essere del 1988, mentre Mario Bava convive con Saturday Night Live e magari il destino fa rompere le acque di una donna incinta durante una proiezione di Operazione paura. In questa ripetizione programmatica e pragmatica di gag sfilacciate, con svariati personaggi che corrono in giro e poche linee che convergono, si crea questa sensazione di un film fuori controllo, allo stesso tempo pensato e scellerato, censurato ma adorabilmente sgradevole, e proprio per questo perfetto per tornare finalmente, nel suo gusto cimiteriale, nelle sue impunite sessualizzazioni e nella sua programmatica lontananza dagli imposti buoni sentimenti delle recenti collaborazioni Disney, al vero immaginario burtoniano. Che non è e probabilmente non potrà mai più essere quello di trent’anni fa, ma che è bello ritrovare come un vecchio amico magari non più al top della forma ma inaspettatamente ancora vivo, in un film che si temeva disastroso e che invece si sa fare volere bene. Poi certo, nell’oceano di immagini, dopo ormai più di un decennio in cui anche nel linguaggio comune si parla di “trollare”, risultano in definitiva sterili le provocazioni di questo personaggio morto e non-morto, creato da uno sceneggiatore morto (McDowell) per un regista che più che vivo è non-morto (Burton) i cui film sembrano comunicare quasi solo tra loro. E infatti non sono propriamente le provocazioni a funzionare. Ma forse non sono nemmeno le provocazioni ciò che realmente interessa. È la montagna russa, è la casa stregata, è il senso di meraviglia da luna park, sono le idee e le soluzioni, è il senso inesorabile di fine dei tempi che aleggia, come in una parata di morte. È per questo che Beetlejuice Beetlejuice potrebbe anche non essere un bel film, ma è in tutti i sensi possibili uno strepitoso cadavere.
Nicola Settis