28 Maggio 2017 -

QUELLO CHE NON SO DI LEI – BASED ON A TRUE STORY (2017)
di Roman Polanski

Come si evincerà da questo scritto, redatto a Cannes 2017 al tempo della prima mondiale, il titolo originale D’après une histoire vrai – Based on a true story non è semplicemente un titolo, ma la principale chiave di lettura del film, senza la quale l’intera impalcatura sulla finzione costruita da Polanski finisce inevitabilmente per, se non proprio cadere, per lo meno risultare incomprensibile. Di fronte alla sconcertante decisione della distribuzione italiana di far uscire il film non con il necessario Tratto da una storia vera, ma con l’equivocato Quello che non so di lei, non possiamo fare altro che adattarci, cambiare il titolo dell’articolo e scrivere questo cappello. In recensione rimarranno però indicati solo il titolo originale in francese e quello internazionale tradotto in inglese, ovvero le due versioni scelte e approvate da Roman Polanski dell’unico titolo possibile per questo film.

È un film denso di MacGuffin, l’atteso ritorno dietro alla macchina da presa di Roman Polanski presentato fuori concorso in chiusura del settantesimo Festival di Cannes. È un film di suggestioni, di ossessioni, di seduzioni più che accennate, di ambiguità depalmiane. È un film di doppi, di pagine bianche da riempire, di lettere minatorie, di incubi, di cannibalizzazioni e di (auto)esposizioni mediatiche, ma soprattutto è un film di false piste, fuorviante già a partire dal titolo, D’après une histoire vraie, “tratto da una storia vera”, quando è al contrario proprio la finzione l’unico vero oggetto di ricerca nel mare di tematiche messe sul piatto dalle stratificazioni di Polanski, il reale assunto di un film che la nega per immergerci(si).
Delphine, scrittrice ormai di successo alla ricerca di un soggetto per il nuovo libro, vive come un progressivo incubo il suo bloccarsi di fronte a Word, fra lettere minatorie che mettono in discussione la sua etica per aver pubblicato, e quindi esposto, storie intime di famiglia, hackeraggi su Facebook e amicizie/derive mentali, pericolosamente al confine con lo stalking, con Elle, Lei, la sconosciuta. Da questo semplice scheletro narrativo si dipana Based on a true story, raffinato noir psicologico dal quale emergono tanto le ossessioni ectoplasmiche, gli schermi degli iPhone, i reality e i nuovi media del co-sceneggiatore Olivier Assayas, quanto i doppi, le dissociazioni, i (The) Ghost writer, i servi-padroni e la capacità di giocare ambiguamente con lo spettatore che sono invece da sempre nelle corde di Polanski. D’après une histoire vraie mette in scena Delphine de Vigan con più di un occhio ad Alfred Hitchcock, scoprendo quasi subito le carte e lavorando poi sul mood, su una tensione costantemente inquietante, sugli ossimori, sugli sguardi e sui silenzi, sugli oggetti fuori posto, sui non detti, sulla capacità di tenere lo spettatore incollato allo schermo anche se sa già, più o meno, dove si andrà a parare.

Tanto che non sarà nemmeno necessario esplicitare l’esistenza o meno di Elle, ma la si lascia immersa nelle nebbie del dubbio, delle ambiguità, degli incubi più inquietanti. Elle (Eva Green), è semplicemente Lei, donna/fan/amica/confidente/coinquilina e poi stalker/doppio/aguzzina di Delphine (Emmanuelle Seigner), o più probabilmente è una sua proiezione mentale, la parte oscura di lei che nessun altro incontrerà mai, il suo ambiguo doppelganger. Si presenta un giorno dal nulla, portando in dote, non certo a caso, un nome che non è un nome, una professione di ghost writer per giungere come un fantasma a ispirare una scrittrice, e un’amica immaginaria di nome Kiki che la segue sin dall’infanzia, proprio così come ora Lei, immaginaria, segue Delpine. Ma non è la sua inesistenza, che risulta chiarissima a un qualsiasi occhio solo vagamente smaliziato già nei primissimi minuti, ciò su cui si basa D’après une histoire vraie: è solo un altro MacGuffin, un qualcosa che, come i quaderni su cui Delphine raccoglie vita e idee che spariscono, come i topi che forse infestano gli scantinati, come la scrittura e la ricerca di realtà, come la segretaria di una biblioteca che non riceverà mai la visita promessa dalla scrittrice, cattura l’attenzione dello spettatore senza avere reale importanza.
Anzi, la scelta di non dare una risposta certa alle domande sulla reale identità del personaggio interpretato da Eva Green – tanto che la stessa Delphine de Vigan, autrice dell’omonimo libro da cui il film è tratto, ancora oggi parla pubblicamente di racconto autobiografico nato e romanzato da un’esperienza à la Misery non deve morire realmente vissuta con una fan impazzita – nient’altro fa che battere ancor più orgogliosamente la bandiera della finzione, dell’inventiva, di quello che è l’ossimorico oggetto di ricerca di Based on a true story, oggetto filmico denso, multiforme, magnetico. Spiazzante, complesso, e proprio per questo, dal pubblico presente qui a Cannes, sottovalutato.

Ciò che conta, di Elle, è il suo ruolo chiave nella vicenda. Si rivela ben presto un’ottima ascoltatrice, sensibile e disponibile, forse l’unica persona al mondo in grado di capire davvero Delphine, di consigliarla per il meglio, di supportarla quando iniziano ad arrivare lettere minatorie. È con Lei che Delphine si apre, è con Lei che si confida, è con Lei che diventa amica, fino ad accoglierla in casa e a vedere il loro rapporto diventare sempre più inquietante, nuova e reciproca declinazione dell’eterna dialettica servo-padrone. Le due vorticano intorno alle dinamiche della seduzione e si scambiano acconciature e vestiti – fra i quali la maglietta di Blackstar, ultimo album di David Bowie lanciato giusto il giorno prima della sua morte ed emblema di tutto quello spirito ectoplasmico che il film vuole esprimere – rendendo Elle il perfetto doppio di Delphine per presentarsi a un appuntamento al quale la scrittrice non ha proprio voglia di presenziare, fino alla sovrapposizione dei due personaggi e forse alla loro corrispondenza.
Il loro è un rapporto ambiguo e sempre più inquietante, fra la natura ectoplasmica di Elle e quella cannibale/vampiresca di Delphine, che ha già portato su carta la storia personalissima e straziata della tragica morte della madre e che ora vede in Elle e nelle sue confessioni di vita romanzesca il perfetto soggetto per il suo prossimo best seller. Ma anche Elle è un altro vampiro, un altro essere fagocitante pronto a prosciugare chiunque si trovi sulla sua strada. Da fan, si installa nella casa di Delphine, legge i suoi diari segreti, rompe violentemente il frullatore, la protegge/espone ai media e alla pressione, la manipola, la porta via, e poi lentamente la avvelena fino allo spasmo, fino al ricovero, fino al tentato (in)consapevole suicidio. O, più probabilmente, fino alla nuova sessione di autografi per il nuovo grande successo letterario, per un nuovo parto della fantasia rigorosamente “tratto da una storia vera”, D’après une histoire vraie, come il pubblico pretende.

Del resto, quello di Polanski è da sempre un cinema di scheletri nell’armadio e di segreti di Pulcinella, legato a doppio filo con la sua biografia di problemi legali e di misteri mai svelati fino in fondo, denso di suggestioni e di tematiche ossessivamente percorse. Dalla scrittura alle deformazioni, dai doppi alle sostituzioni, fino all’incapacità di prendere di petto le situazioni e ai rapporti umani vampireschi, D’après une histoire vraie affastella tematiche da sempre care al regista polacco, e con queste affascina, ragiona, svia, volutamente confonde, come uno sguardo che pare di sfida nello specchietto retrovisore, come un incubo gotico, come una tensione progressiva. Eppure, fra gli sterminati grandangoli di Polanski a deformare immagini e certezze, rimane intatta l’impronta di Olivier Assayas, con la sua (de)costruzione del/sul genere, con i suoi fantasmi, con i suoi schermi negli schermi, con la sua società virtuale fatta di maschere che nascondono l’ipocrisia. Sono due visioni cinematografiche apparentemente distanti eppure complementari, che qui trovano un punto di sintesi in un film straordinariamente elegante e magmatico, nel quale non tutto, nella foresta di MacGuffin, deve tornare alla perfezione, perché quello che conta è proprio ricordare che si sta “solo” guardando un film. Based on a true story è un interrogarsi ancora sul cinema, sulla scrittura, sulla suspense, sulla finzione, e poco importa se le orchestrazioni (anche queste di chiara matrice hitchcockiana) di Alexandre Desplat, nella loro costante presenza, diventano alla lunga invasive. Anzi, paradossalmente è proprio la loro stessa invasività a porle come elemento funzionale al messaggio del film, come fastidio necessario per poterlo capire.
Perché non c’è nulla di più falso della realtà, sembra volerci dire Polanski, e forse non c’è nulla di più vero della finzione. A suo modo, Based on a true story è un film sulla fiducia, su quel rapporto ambiguo, seducente e contorto che si instaura fra le due protagoniste, ma soprattutto sui patti mai davvero codificati fra chi scrive (magari con la penna di un ghost writer destinato a rimanere nell’ombra) e chi legge, o fra chi crea immagini e chi le guarda. E come Delphine, per il suo fidarsi di Elle, finirà per rischiare la morte per avvelenamento, così il pubblico che legge un libro o guarda un film deve stare attento a non credere a tutto ciò che vede, ma nel frattempo assorbirlo e viverlo fino in fondo, decodificarlo, lasciarlo crescere, amarlo. Come il grande ritorno di un grande Maestro della macchina da presa.

Marco Romagna

“Based on a True Story” (2017)
110 min | Comedy, Drama, Mystery | France / Belgium / Poland
Regista Roman Polanski
Sceneggiatori Olivier Assayas (screenplay), Roman Polanski (screenplay), Delphine de Vigan (novel)
Attori principali Eva Green, Damien Bonnard, Emmanuelle Seigner, Dominique Pinon
IMDb Rating 5.5

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