5 Settembre 2025 -

BACK HOME (2025)
di Tsai Ming-liang

È nota sin dai tempi di Days l’origine laotiana di Anong Houngheuangsy, eletto ormai da qualche anno da Tsai Ming-liang nuovo feticcio a fianco dello storico (e ancora, come testimoniato lo scorso anno dal magnifico Abiding Nowhere) lento camminatore Lee Kang-sheng, così come è risaputo che il ragazzo viva abitualmente nella confinante Thailandia a relativamente poche ore di pullman dalla propria città natale e dalla propria famiglia. Quello che non si sapeva, anche se forse conoscendo Tsai e il suo cinema di sguardo senza (più) sottotitoli né (più) sceneggiature si sarebbe potuto intuire, è come da uno dei periodici ritorni a casa del ragazzo per andare a trovare i genitori sarebbe nato Back home, piccolo resoconto lirico di un viaggio in cui paradossalmente il regista può mostrare Anong una sola volta mentre dorme lungo il tragitto, per poi concentrarsi sui luoghi visti e sulle situazioni vissute insieme, guardando inevitabilmente, da persona a sua volta emigrata a vent’anni dalla natale Malesia e poi naturalizzata taiwanese, allo stato di abbandono di un Paese in cui sono più quelli che scelgono di andare via che quelli che scelgono di restare, ma anche alla vita quotidiana di chi è rimasto, agli (in)aspettati sprazzi di poesia e di bellezza del mondo, e al calore umano fatto di piatti tradizionali e affetto di un nucleo familiare che, anche se per breve tempo prima che debba nuovamente ripartire, riaccoglie il suo figliol prodigo. Elementi d’osservazione, di lirica e d’amore che fanno da assi portanti a un film, presentato fuori concorso all’82esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, fatto di malinconia e di bellezza, d’asfalto e di polvere, di specchi d’acqua e di giunchi galleggianti, di stalattiti e di improvvise cascate. Ma soprattutto un film con cui Tsai ha l’occasione per ritornare al suo personalissimo τόπος della casa disabitata e in rovina già presente nella sua filmografia sin dalla fine degli anni Novanta con gli appartamenti di The Hole, poi ripresi nei successivi decenni con il (non-)rifugio di Stray dogs e con le camminate del Walking on water episodio del collettivo Letters from the South, e poi ancora con l’unico ambiente di Afternoon e perfino con quel The Deserted con cui nel 2017 il gigantesco regista taiwanese si affacciava per la prima e per ora unica volta alla realtà virtuale, filmando questa volta con (sempre) strepitosa eleganza le tante abitazioni chiuse, sventrate o magari mai nemmeno completate in giro per le campagne del Laos, fra lamiere, legni e maioliche, fra mattoni, piloni e vetrate mancanti, fra stalle, piani rialzati ed eterni cantieri che non verranno mai chiusi. Una mappatura se si vuole à la Radu Jude, per quanto priva delle medesime stratificazioni politiche e antisistemiche di cui il regista rumeno innerva i suoi film, fatta di (forse mai così tante in tutta la filmografia di Tsai) inquadrature fisse destinate a ergersi a peregrinazione esistenziale dell’intera umanità, intrappolata nel proprio vortice un po’ come quel cane che non riesce a uscire dal centro della giostra circolare dei bambini, che come in una sorta di calcinculo volano uno dopo l’altro a pochi centimetri da terra.

Non è un caso in tal senso che in Back home, dopo la breve strada da compiere per giungere a destinazione, ci sia quasi l’impressione di dovere necessariamente passare da un post-umano di soli luoghi deserti, fiori galleggianti e animali senza (più) pastori per potere poi progressivamente riscoprire gli uomini e la vita di comunità, gli interni delle case vissute ogni giorno, il caos dei mercatini popolosi e la serenità delle persone e dei luoghi cari, il piccolo miracolo dello stare insieme e del condividere la quotidianità, il viaggio, le fotografie sui muri, la musica. I legami, che sembrano in qualche modo non poter prescindere da un insistere sulla non-architettura dell’assenza e dell’abbandono a cui, ben più che il dato politico-sociale dell’emigrazione, interessano l’intrinseca metafora, la filosofia, la psicologia, la condizione dell’anima che solo dopo essersi persa si può ritrovare, e che proprio nella solitudine e nello sconforto si rende conto ancora di più del proprio assoluto bisogno d’amore, dell’importanza di un contatto, di un sorriso, di uno sguardo d’intesa. Di una parola, magari, anche se non è in alcun modo necessario capire che cosa voglia dire, pronunciata in un laotiano che verosimilmente nemmeno Tsai conosce e anche per questo non tradotta: quello che conta è il suo tono allegro e accomodante, il suo significato implicito di accoglienza e di affetto, l’evidenza dei sentimenti che fanno vibrare le corde vocali mentre si prepara il pranzo da consumare insieme. Come se la parola nient’altro fosse che il più dolce fra i possibili suoni d’ambiente, fatti di sovrumani silenzi e profondissima quiete, fatti dei latrati dei cani e dei belati ovini di vitelli e caprette, fatti dei coccodè delle galline e del soffio incessante del vento che sposta le foglie degli alberi e sferza le case abbandonate, i campi riarsi e le baracche mai finite. Solo successivamente i motori potranno tornare a scoppiettare, le poche auto e i tanti scooter (magari trasformati artigianalmente in sidecar con un carrello della spesa per portare la merce al mercato) potranno tornare a girare senza caschi né apparenti regole, e lo stridore delle smerigliatrici, degli scalpelli e dei phon con cui gli artigiani locali scolpiscono, rifiniscono, dipingono e asciugano gli enormi idoli giganti destinati a templi ed edicole votive lungo i cammini potrà ritornare a risuonare per la valle. Libero questa volta più che mai di qualsivoglia tentazione (anche pseudo-)narrativa e di messa in scena, Tsai Ming-liang si limita a cogliere i (non) accadimenti di quei pochi giorni lasciando che la macchina da presa sia il suo punto di vista come una sorta di implicita soggettiva su cavalletto, per un cinema straordinariamente semplice eppure mai sterile e anzi poeticissimo, che nasce naturalmente e in maniera del tutto istintiva dallo sguardo, dalla curiosità e dall’amore di un essere umano di sensibilità straordinaria. Poi sì, qualcuno forse potrebbe obiettare sulla durata, forse paradossalmente un filino eccessiva per ciò che Back home ha da mostrare nonostante il film duri poco più di un’ora, quando lo stesso Tsai ha più volte in passato contenuto i suoi lavori più “piccoli” in corti o mediometraggi. Ma, proprio come il film racconta, a volte è necessario il tempo in cui sentire il senso della mancanza (e in cui inevitabilmente abbandonarsi ai propri pensieri personali, che quasi le immagini invitano a riemergere durante la visione per porsi in un sostanziale dialogo interno di ogni singolo spettatore) per reimparare ad apprezzare e godersi le emozioni del quotidiano, i piccoli gesti, la bellezza semplice e (in)spiegabile del vivere e dello stare insieme. La catarsi di un piccolo grande film. Per lo meno fino alla malinconia preventiva di una valigia di nuovo pronta, e il prossimo arrivederci.

Marco Romagna

“Back Home” (2025)
65 min | Documentary | Taiwan
Regista Tsai Ming-liang
Sceneggiatori N/A
Attori principali N/A
IMDb Rating N/A

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