I prodigiosi e precoci risultati delle scuole elementari generarono, nei genitori di Elio Di Pace, il sospetto che il destino gli avesse appioppato un bambino prodigio. Ma il tempo è galantuomo, e con pazienza la convinzione è stata opportunamente smantellata: a parte l’eccellenza in latino e greco al liceo, null’altro da segnalare, se si escludono la quota realizzativa alla Romario negli anni di calcio da villetta comunale e qualche assolo di tapping particolarmente riuscito negli anni della spensieratezza.
Ma ecco sopraggiungere il Cinema (e la Fotografia, beninteso).
Ecco. C’è stato un momento, subito dopo la visione del Padrino, che Elio Di Pace ha detto: “Io voglio vivere di questa roba qua”.
E da lì i festival, i primi – illeggibili – esercizi di critica, addirittura una patetica – ma non completamente da buttare, secondo lui – sceneggiatura per lungometraggio, per non parlare di una 3+2 all’avveniristico DAMS di Salerno, con tesi sui fratelli Coen e sui documentari di Scorsese.
Nel frattempo, c’era stata – rivelazione del codice genetico – la scoperta del mirino ottico. Da quel momento, lontanissimo e primordiale, Elio ha visto trascorrere la vita attraverso vetri, specchi, proiettori, ingranditori.
I risultati continuano a parergli disastrosi, ma lui non si arrende. Come, d’altronde, con le donne e la Salernitana: le sconfitte non si contano, ma perché smettere di provarci?