7 Settembre 2020 -

ASSANDIRA (2020)
di Salvatore Mereu

A ss’andìiira, s’andìiira, àaandìra -ndìiira, -ndirò

È una parola antica e fiera Assandira. Una parola che «c’è sempre stata», tramandata lungo infinite generazioni attraverso le filastrocche della più radicata tradizione pastorale sarda. Una parola «che si canta» in una quotidiana preghiera pagana di saluto e ringraziamento al sole che bacia l’isola, in qualche modo l’essenza più intima di un popolo chiuso e orgogliosissimo. Una parola da non utilizzarsi a sproposito, o per lo meno da non (con)trad(d)ire troppo apertamente. Non è certo un caso che nel 2004 l’antropologo e scrittore Giulio Angioni l’abbia scelta come nome dell’agriturismo che dà il titolo e funge da innesco al suo più noto romanzo, come non è certo un caso che oggi il regista isolano Salvatore Mereu, per continuare a riflettere sulla sua terra tornando al lungometraggio e, fuori concorso, alla Mostra di Venezia otto anni dopo la dolcezza di Bellas mariposas, abbia scelto di trasporre sul grande schermo proprio il cupo dolore di Assandira. Una storia di dignità, di vergogna e di sensi di colpa, di radicata tradizione e di sua sacrilega messinscena, di repentini cambiamenti antropologici e di traumi troppo profondi per poterli realmente elaborare. Una storia intimamente sarda eppure in qualche modo omerica, in cui lo scontro generazionale è lo scontro fra un passato che sembrava immutabile e un presente che rapidissimo corre verso la globalizzazione, in cui l’esistenzialismo è la lotta interna fra la dignità secolare dei pastori e l’imbarazzo sentendo di averla in qualche modo oltraggiata, e in cui gli usi e i costumi di un mondo vengono in qualche modo profanati, trasformati in finzione con cui intrattenere i turisti, fino all’inevitabile montare della tragedia.
Una storia che non poteva che essere interpretata da uomini veri, da pastori sardi in grandissima parte non professionisti in grado di capire e di vivere intimamente il sentimento messo in scena, e in cui il protagonista Costantino Saru non poteva che essere interpretato da Gavino Ledda, il pastore analfabeta fino all’età adulta e poi divenuto letterato, filologo, glottologo, scrittore, membro della Crusca, professore universitario, attore e regista – «A me hanno tolto anche la scuola», dirà il suo personaggio richiamando la celeberrima autobiografia di chi lo interpreta, strappato dal padre agli studi solo dopo pochi giorni di prima elementare per farlo lavorare come pastore. Non poteva che essere colui che subì la tirannia del Padre Padrone messo successivamente in scena dai Taviani, e che si seppe emancipare (non solo) fino a raccontarla. Qui è in un certo senso l’opposto rispetto a Padre Padrone, non è l’oppressione di una tradizione arretrata e analfabeta ad asfissiare e a condurre verso la sciagura, ma le forzature irrispettose della modernizzazione. Una scelta di cast che stratifica e rende ancor più potente Assandira, permettendo a Ledda di tornare in qualche modo tanto alL’educazione di un pastore in un ibrido fra se stesso e il padre Efisio quanto ai profondi cambiamenti dell’isola messi in scena in Ybris, interrogandosi ancora una volta sulle complessità di quella Sardegna antica e nuova di cui, a quasi 82 anni, è da tempo doppio depositario e studioso. Una terra che è orgoglio di un popolo, con una propria lingua, con una propria tradizione di usi e di costumi, con una propria musica e con una propria e personalissima Storia, ma anche una terra da pochi decenni profondamente stravolta dall’accorciarsi delle distanze, dall’esplosione dell’economia e del turismo, e dalla conseguente trasformazione di tutto ciò che era appartenenza – i balli, i vestiti, la vita dei pastori, persino l’accoppiamento degli animali – in palcoscenico, intrattenimento, spettacolo. Uno scimmiottamento con cui replicare, in favore di occhi intrusi e macchine fotografiche che ben presto smetteranno di giocare e torneranno alle loro città e alle loro vite in continente, un qualcosa che sembrava immutabile e che invece non esiste più, perso forse per sempre.

Inizia con il fuoco e con l’acqua, Assandira. Prima le fiamme che avviluppano e distruggono l’agriturismo, e poi la pioggia scrosciante che le spegne rivelando il corpo senza vita di Mario, figlio di Costantino, e l’aborto spontaneo di sua moglie Grete, danese nel libro di Angioni e tedesca in questo libero adattamento cinematografico. Gocce incessanti, battenti, ghiacciate nel gelo della notte, che inzuppano il protagonista al posto di quelle lacrime che, così incredulo, inebetito e turbato, nemmeno riesce a versare. Dopo un incendio dalle circostanze misteriose e inesplicabili, forse incidente o forse doloso, un devastato Costantino e il PM cercheranno di fare luce sugli avvenimenti tornando al principio, dal ritorno di Mario in Sardegna fino alla notte della sua morte, innestando la narrazione di Mereu in una serie di flashback/capitoli che ripercorrono con sfumature noir le fasi che hanno portato alla tragedia. Il profondissimo senso di colpa di Costantino è sì per essere rimasto vivo mentre gli altri sono morti, ma soprattutto per il fatto di essersi lasciato convincere a «giocare con le cose serie». Con quell’agriturismo che non si sarebbe mai dovuto fare, certo, ma anche accettando con quel viaggio a Berlino per mettere fine a un’altra onta, la sterilità del figlio, donando il suo sperma per l’inseminazione artificiale di Grete. Un ulteriore simbolo delle profonde ambiguità che sente di vivere il frastornato protagonista, sorta di ponte fra la tradizione per molti versi arretrata del litigioso e luciferino fattore Peppe Bellu e l’apertura al cambiamento di un figlio che nemmeno sa mungere, ma che gioca al pastore con quella nuora straniera che, nel boom degli anni Novanta, ha avuto l’idea di lanciarsi nel business. Al contempo padre e nonno del nipote in arrivo proprio come è padre (non più) padrone che cede alle richieste di Mario – «scimunito dal continente» – fino a credere quasi di condividerle. Al contempo pastore e sostanziale attore che interpreta una pastorizia stereotipata per i cittadini stranieri che questo vogliono e che per questo pagano. Al contempo burbero tradizionalista e tenero suocero che finirà per regalare alla nuora l’abito tradizionale della moglie tenuto sino a quel momento come una reliquia, per poi scoprirlo ancora una volta irrispettosamente sconsacrato e profanato proprio come quel cibo da sempre per le pecore e che ora invece viene lanciato agli struzzi, animali importati per il diletto dei clienti e che nulla c’entrano con la “vera” realtà. E forse a volte è meglio un fiammifero, che accettare di essere parte di tutto questo.
Padre addolorato che ha perso suo figlio, Costantino è un uomo talmente distrutto dai rimorsi – nei confronti della famiglia, ma soprattutto nei confronti della sua terra – che quando verrà trovata una tanica di benzina finirà persino per autoaccusarsi dell’incendio senza convincere nemmeno il magistrato, in un finale volutamente ambiguo e intelligentemente irrisolto nel quale poco importa, in realtà, che la sua sia autosuggestione o delitto. Conta solo come il senso di colpa e il peso delle responsabilità siano come un peccato originale più forte dell’innocenza, più radicato della verità, ancora una volta una sfumatura che emerge da qualche parte fra la realtà e la finzione. Che sia stato effettivamente stato o meno Costantino ad appiccare le fiamme, Mario non è morto tanto per il fuoco o per la fatalità, quanto per un’idea sbagliata. Un’idea «nata fuori, venutaci dal mare», e quindi lontana, sventurata già in partenza, in qualche modo empia come le differenti solitudini dei protagonisti, il burbero pastore e l’emigrante di ritorno, la moglie che convince tutti a vendere ciò che non conosce e il fattore che non capisce lo scorrere del tempo. Salvatore Mereu la mette in scena in progressivi disvelamenti nel grigiore oscuro dei contrasti notturni e nella luce abbacinante delle giornate di sole, lavorando sulle lingue (l’italiano e il sardo, ma anche l’inglese e il tedesco che penetrano fra le mura di Assandira) e rimanendo stretto intorno ai suoi protagonisti, ai loro angusti spazi, alla cultura millenaria del popolo isolano. Dirige, proprio come la “farsa” dell’agriturismo che vuole far provare l’essere sardo a chi sardo non lo è, il cliché dell’anziano silenzioso e in attesa con la doppietta, mentre mostra il suo lavoro quotidiano con gli animali e la sua intima appartenenza ai luoghi dove è nato e cresciuto, ma anche il suo essere progressivamente disposto a cantare ai turisti un’epopea falsificata, fatta di inesistenti banditi e di improbabili aneddoti, fatta di aperte menzogne e di giochi con la verità. Ragiona sul concetto di finzione, sulla famiglia, sui significati più profondi della Sardegna, fra la teoria cinematografica e la tradizione. Il risultato è un film potente, stratificato, di gran lunga fra le più appaganti visioni di Venezia77, nel quale poco importa che l’orgia nel prefinale, quasi una risposta alla zoofilia di Padre Padrone, sia l’unico momento non del tutto convincente. Rimane un gran lavoro di non-attori, di cultura locale, di solitudini e di sfumature (im)percettibili che non potranno che condurre alla tragedia. E no, il vero mistero non è se Costantino abbia effettivamente appiccato le fiamme. Il vero mistero è una considerazione ben più politica che cinematografica. Perché Assandira non era in concorso? Forse perché non ci si poteva permettere che un film cosi indipendente e personale, orgogliosamente fuori dai radar dell’industria e delle grandi produzioni, rischiasse di vincerlo?

Marco Romagna

“Assandira” (2020)
126 min | Drama | Italy
Regista Salvatore Mereu
Sceneggiatori Giulio Angioni (novel), Salvatore Mereu (screenplay)
Attori principali Anna König, Marco Zucca, Gavino Ledda, Corrado Giannetti
IMDb Rating N/A

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