13 Maggio 2018 -

I FIGLI DEL FIUME GIALLO (2018)
di Jiǎ Zhāngkē

«E gli occhi suoi già stanchi prendevano commiato
Velando con lo sguardo
Le mille meraviglie del creato,
Le mille meraviglie del creato
In alto trasparente denso il cielo immobile vicino
In basso umide nuvole rumore
Di foresta lontano, lontano, lontano
Renderà sopportate fame fatica orrore
Le vostre sofferenze allevierà amate creature
Vi terrà compagnia quando sarete soli di necessità
Per ultimo non ultimo li polverizzerà»
CSI, Polvere

Ritornare a guardare uno spazio, qualsiasi cosa esso possa ancora rappresentare, è sempre un’operazione mastodontica, e forse, specialmente se sei uno dei più indispensabili registi (non solo) cinesi della contemporaneità e hai nuovamente in mano la tua macchina da presa, è anche una ben precisa presa di coscienza morale. La riflessione di un luogo, del resto, non è mai unicamente un processo percettivo, perché stimola sempre un’apertura e un dialogo con la memoria. Il senso stesso del cinema di Jia Zhang-ke (o Jiǎ Zhāngkē, che traslitterar si voglia) è l’espressione di un vortice etereo di storie, che si annodano attorno a loro stesse e alla Storia donandosi vicendevolmente una prospettiva sempre diversa, ampliata e retroproiettata al futuro – anche, e forse soprattutto, quando questo è apparentemente immobile. Il potere del luogo, in fondo, non è altro che il vederlo mutare attraverso il proprio occhio, in una doppia ricostruzione ciclica del nostro immaginare (il nostro) mondo. Le premesse sono più che mai doverose quando ci si trova davanti a un cinema che amplia il rapporto con il passato e diventa una finestra sulle cose che cambiano come sul nostro cambiare (anche le cose stesse), facendo fluire le storie fino a noi. Specialmente nel momento in cui, nella filmografia unica e fondamentale di Jia Zhang-ke, il luogo e il tempo sono così centrali anche in questo complesso, stratificato e poetico Ash Is Purest White, il cui titolo originale Jiānghú érnǚ (江湖儿女), traducibile come “Figli della Triade” o forse “Figli di fiumi e laghi” – dal titolo di un progetto mai realizzato da Fei Mu e adorato da Jia – è forse più vicino al reale respiro del film. Tanto che, per la distribuzione italiana, Cinema opterà per il più fedele I figli del Fiume Giallo, che pur perdendo forse qualcosa in poetica rimetterà da subito sotto i riflettori il territorio e le sue metamorfosi. Ed è proprio per tutti questi motivi che Ash is the Purest White / I figli del Fiume Giallo, in concorso a Cannes 71 e fino a questo momento, con l’escusione dell'”uber-cinema post-cinema” di Godard così imparagonabile a qualsiasi altro film “normale”, unico reale colpo al cuore sulla Croisette, si apre con riprese girate effettivamente nel 2001: la folla di un bus nella periferia della Cina, lo sguardo dei passeggeri prima perso nel vuoto e poi in macchina, restituito nella grana digitale nerboruta e scarsamente definita di una Hi8. Si ritorna così da dove già siamo partiti, o forse dove non ce ne siamo mai andati. In un senso umano forse anche più stringente di quello teorico, in cui un’immagine (magari tagliata al montaggio, scartata o semplicemente non utilizzata) diventa il punto di partenza di un altro sguardo attraverso un’altra storia. Tornare a guardare uno spazio (basti pensare all’evoluzione della scarcerazione che giunge addirittura alla Diga delle Tre Gole, che «saranno ricoperte d’acqua» nel girato di Still Life) é quindi prima di tutto tornare a guardare uno sguardo, il proprio che cambia proprio nel rapporto verso la realtà, verso la sorgente dell’immagine e verso l’evoluzione di una personalità come quella di Jia, mai conciliata ed eternamente in ricerca. Sono simboli, spesso minimi, che sono la traccia stessa del film, il suo respiro, la sua grazia, la sua potenza.

Siamo a Datong, nel 2001 appunto. In una Cina alle prese con la nuova ondata di sfruttamento immobiliare, una giovane ragazza (la splendida Zhao Tao) é la fidanzata del boss locale che si occupa del proteggere i nuovi investimenti legati alle costruzioni; siamo in una poverissima zona mineraria e subito Jia Zhang-ke pone l’accento e lo sguardo sulla differenza tra i lavoratori sfruttati e le gozzoviglie della mafia locale. Lei, a differenza di quello che spesso appare, è una donna estremamente complessa e indipendente, mai assoggettata direttamente al clan, che accompagna il suo uomo con discrezione e fedeltà anche nella notte in cui lui viene attaccato e lei per salvarlo, perfettamente conscia del sacrificio e del carcere che spetta a chi non ha porto d’armi ma possiede una pistola, non può fare altro che scendere dall’auto e sparare in aria. Primo scarto temporale, lei (cinque anni dopo) è pronta ad uscire dal carcere, e le rimane solo la sorella (anche il padre é mancato). Decide dunque di partire immergendosi in un vortice pieno di peripezie, cambi di identità, sguardi persi; arrivata dal suo uomo (ormai importante businessman) scopre – attraverso un piano sequenza sublime, vera e propria danza della macchina da presa nel dialogo e negli sguardi dei protagonisti – di esser stata lasciata sola al proprio destino. Passano altri undici anni – un vecchio treno lascia la stazione mentre uno velocissimo giunge – ed ora è lui (paraplegico per l’alcol) ad avere ancora bisogno di lei. Ci sarà ancora una volta, a Datong, prima dell’ennesimo naufragio del sentimento e della Storia. Perché lui, non appena in grado di camminare, scappa ancora, e lei rimane un’immagine deformata dalla (non) spazialità digitale, in un’evoluzione che dalla videocamerina dei primi Duemila passa agli odierni schermi di sorveglianza, mosaico di realtà costantemente in diretta. Non è abitudine di chi scrive raccontare la “trama” di un film, ma in questo caso è proprio l’evoluzione della sceneggiatura a tracciare il passaggio (e anche il paesaggio) dal padre nostalgico (di Mao e della Rivoluzione Culturale?) alla sorella che si intravvede appena (quella cultura povera, millenaria e rurale?) incinta e in fuga, fino al boss arrivista ed irrispettoso (la Cina dell’oggi?) che continuerà a sfruttare e poi abbandonare chi non gli serve più. I personaggi che Jia innesta nel suo atipico melodramma di sentimenti, dolore, drammi, Cina e solitudine sono vere e proprie figure metaforiche che ruotano attorno alla donna che interpreta Zhao Tao, attraversata da tempi e spazi, costantemente fuori tempo, costantemente sconfitta e sempre stritolata dal cambiamento, che in questo fila Jia Zhang-ke restituisce sempre in maniera ripartita ma più fluida rispetto al rigorossimo Mountains May Depart, con frammenti della violenza di A Touch of Sin e dell’evoluzione di Still Life, pur non ritrovando tutto il respiro giovanile e radicale di Platform.

L’altro grande protagonista del film infatti non può che essere il cambiamento, vorticoso, allucinato e più che mai contraddittorio che Jia Zhang-ke studia fin dai suoi esordi, e che declina con gli stessi supporti e linguaggi che il tempo esige. Questo viaggio nella durata cambia per formati, definizioni e supporti, in diciassette anni che vanno dalla Hi8 ai pixel della videocamera di sorveglianza (passando attraverso il 35mm del girato di Still Life e per l’attuale HD), alternando un rigore e una grazia stilistica assoluta (le sequenze dell’agguato, del dialogo, del tentativo di farlo tornare a camminare, ma anche la barca che sta tornando a Datong), a uno sguardo verso l’amore mai dichiarato, e verso la compassione che nemmeno la ferita può estirpare. Su tutto questo regna inquieto lo spettro di una memoria mai conciliante (il refrain di YMCA, in un certo senso nuova Go West ripensando al precedente lavoro di Jia, é sempre evocatore e spaziale) e che regna nei simulacri dell’oggi, di una profondità che man mano svanisce lasciando il film al suo destino languido e regnato dal ricordo di un passato sempre più remoto. La purezza del titolo è quella del vulcano di fronte al quale innamorarsi, sparare e perdersi, è quella delle sue temperature che rendono tutto cenere. È la purezza della sparizione, del nulla come dell’oblio. Questo é il rischio del progresso, è lo smarrimento della trasformazione che colpisce un’intera generazione (verrebbe da dire non solo in Cina) rendendola carne da macello della conversione, senza ancore alle quali aggrapparsi, senza (più) strumenti critici di interpretazione. Pare che Jia Zhang-ke, fondamentalmente, con il suo cinema cerchi proprio questo, come se lui stesso fosse in ricerca di una realtà più “reale”, che restituisca fisicità a un’immagine (come a un sentimento e/o a un’emozione), che giunga a stratificarsi in qualcosa dal mutamento più percettibile e umano. Nell’ennesimo capitolo di una filmografia straordinariamente interessante, questo Ash Is Purest WhiteI figli del Fiume Giallo é un tassello fondamentale, anche se probabilmente non il più luminoso, proprio perché evoluzione diretta di altro, ricostruzione di tasselli passati in attesa che anche questi possano diventare futuri. La Cina attuale emerge come (s)fondo scosceso in cui nessuno (né gli attivisti, né tanto meno i nostalgici) sembra essere in grado di orientarsi coscientemente. Laddove l’archivio personale diventa immagine universale, il percorso di Jia Zhang-ke rimane illuminato, perdendo magari talvolta un minimo della sua forza espressiva, ma mai coerenza linguistica e morale. Il suo è un cinema che è resistenza dell’immagine di ieri su quella di oggi, fondato sul fatto che le cose possano cambiare prima di finire (le case che verranno inghiottite dall’acqua della diga sono anch’esse diventate altro), e appunto sull’esperienza di modulazione infinita delle storie che costruiscono la Storia. In gioco c’è sempre il vedere e il filtrare, in una mappatura continua di come guardiamo nel rapporto con ciò che stiamo guardando. E come sempre, di fronte ai titoli di coda, non si può che lanciarsi in un caldo, stimolato ed emozionato applauso. In attesa del prossimo grande film di un regista sempre straordinario.

Erik Negro

Si comunica che il film “I FIGLI DEL FIUME GIALLO” di Jia Zhangke distribuito da CINEMA S.r.l.
è stato designato Film della Critica dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani – SNCCI.
Motivazione:
L’ingresso della Cina nel XXI secolo raccontato attraverso gli occhi di una donna. Il nuovo film di Jia Zhangke usa il melodramma e il film di gangster (la protagonista è la donna di un boss) per raccontare i rischi che il «progresso» causa al suo Paese, dove le domande delle persone non trovano risposte, gli anziani muoiono soli e persino le «leggi» della malavita si sgretolano. E lo fa mettendo a confronto un’eroina romantica e determinata con un mondo che sembra indifferente a ogni cambiamento.
“Ash Is Purest White” (2019)
Drama, Romance | China / France / Japan
Regista Zhangke Jia
Sceneggiatori Zhangke Jia
Attori principali Tao Zhao, Fan Liao, Xiaogang Feng, Yi'nan Diao
IMDb Rating N/A

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