22 Ottobre 2025 -

ANEMONE (2025)
di Ronan Day-Lewis

Solo un cuore di padre poteva riportare su uno schermo cinematografico il talento senza eguali di Daniel Day-Lewis; solo il figlio Ronan, non più bambino ma stimato pittore ventisettenne ormai pronto per il grande salto verso il primo lungometraggio da regista, poteva convincere il padre a ripresentarsi su un set. Un ritorno, a tredici anni dalla sua decisione di smettere con la recitazione dopo Lincoln e a otto di distanza dall’addio ufficiale alle scene con Il filo nascosto (che già al tempo aveva dichiarato di avere accettato come deroga solo per l’amicizia che da decenni lo lega a Paul Thomas Anderson), senza il quale con ogni probabilità Anemone non sarebbe mai potuto esistere, immaginato e scritto (insieme allo stesso gigantesco attore, co-autore della sceneggiatura insieme a Ronan) per Daniel Day-Lewis e per molti versi su Daniel Day-Lewis, sulla sua sterminata bravura, sul suo magnetismo, sulla profondità della sua voce e del suo sguardo. Sui grandi film che hanno costellato la sua carriera e letteralmente sul suo ritorno (a casa, ovvero al cinema) che chiuderà la vicenda. Tanto che non è affatto un caso la scelta di ritardare il più possibile il disvelamento del suo volto, ancora una volta incorniciato da quei baffoni a manubrio che già avevano reso iconiche le sue interpretazioni in Gangs of New York e ne Il petroliere, inquadrandolo per i primi minuti solo di spalle come a caricare il più possibile l’attesa del suo letteralmente straordinario, del tutto eccezionale, ripresentarsi al pubblico, così come non è affatto un caso la decisione di tornare ai tempi dell’IRA e degli attentati incendiari con cui tentare (invano) di annettere l’Irlanda del Nord all’EIRE già al centro del dittico di Sheridan Nel nome del padre e The Boxer per porlo questa volta dall’altra parte del conflitto, reduce post-traumatico e oramai fantasmatico dell’esercito di Sua Maestà. Un’attesa che è del resto sin dalla fase di scrittura fra i punti programmatici di Anemone, con la scelta di partire in medias res per seminare indizi e rivelare solo a poco a poco, aggiungendo una tessera alla volta al mosaico fra montaggi in parallelo, tardivi confronti familiari e almeno un paio di monologhi indimenticabili del protagonista, le informazioni sui personaggi e sulle dinamiche presenti e passate che li hanno separati ma che indissolubilmente continuano a legarli, i traumi che li hanno forgiati da qualche parte fra la devastazione di chi ha troppo sofferto e la vigliaccheria di chi fugge dalle proprie responsabilità, mentre la violenza in qualche modo sembra propagarsi fra le generazioni come un male atavico e forse semplicemente incurabile.

È per questo che il Ray di Daniel Day-Lewis ha scelto ormai da anni la vita da eremita. Lontano dai ricordi degli orrori d’infanzia, lontano dai ricordi dagli orrori bellici e militari del conflitto nord-irlandese, e infine lontano pure da una famiglia con cui necessariamente dover fare i conti fra le dicerie popolari che oramai lo hanno bollato come pazzo assassino e l’ambiguità dolorosissima degli atti per i quali doversi realmente (o magari non doversi affatto, nell’assottigliarsi fino a sparire del confine fra odio verso il nemico e pietas umana) sentire in colpa. Lo stesso motivo che, dopo anni e anni senza alcun tipo di contatto, spinge il fratello Jem interpretato da Sean Bean a partire per andarlo a trovare nella sua casupola nel mezzo del bosco. Pronto ad ascoltarlo per ritrovare finalmente un dialogo, per affrontare insieme gli irrisolti, per tornare (a costo di beccarsi un pugno in piena faccia) a essere una famiglia. Ma soprattutto per trovare insieme una strada con cui in qualche modo riempire il vuoto esistenziale che attanaglia il giovane Brian, che ben presto si scoprirà essere il figlio biologico di Ray cresciuto da Jem insieme alla madre Nessa dopo la fuga nel nulla del fratello, reo di aver picchiato un coetaneo fino quasi a ucciderlo di botte senza nemmeno sapere esattamente il perché. Non è salvarlo dal riformatorio e dalla pena giusta e oramai inevitabile il punto, ma è dargli urgentemente quelle risposte di cui ha bisogno per superare i fantasmi che lo attanagliano da tutta l’esistenza, trascinato nella sua spirale di depressione e violenza dal seme del dubbio, dal non sapere in sostanza nulla del proprio padre e dei motivi che lo hanno spinto alla fuga, dall’infamia sociale calata, a causa del genitore, sull’intera famiglia. Solo la verità può aiutarlo a uscire dall’oscurità, ma la verità prima di tutto deve essere elaborata e confessata a se stessi, mentre Ray non è mai uscito dai suoi dilemmi morali, volontariamente autocondannato a una pena che probabilmente non finirà mai di scontare fra il ricordo a suo modo glorioso della vendetta escrementizia verso il prete pedofilo che lo aveva molestato da bambino e quello devastante di un crimine di guerra che in realtà nient’altro voleva essere che un atto d’amore. Un uomo distrutto dal proprio passato e dagli orrori vissuti, che non cerca assoluzione e che anzi quotidianamente vede materializzarsi i suoi ricordi in Polaroid come incubi ai piedi del letto, immobili, cristallizzati in un’istantanea.

Solo una fra le numerose intuizioni visive del giovanissimo ed evidentemente talentuoso Ronan Day-Lewis – magari in questo suo esordio non ancora sufficientemente maturo per evitare a tratti di perdere il controllo in un prefinale di tempesta e di ritrovata quiete in cui probabilmente esagera un po’ con i simbolismi, oppure nella gestione non del tutto equilibrata di una sceneggiatura che nel suo girare attorno alla disperazione di un uomo finisce forse inevitabilmente per mettere sul piatto diversi spunti potenzialmente stratificabili e interessanti (il già citato prete pedofilo, ma pure i racconti di guerra) per poi abbandonarli relegandoli a mattone di un muro di dolore – ma non per questo meno strabordante nel suo immaginario pittorico e nella sua consapevolezza tecnica del mezzo cinema con tutte le sue possibilità affabulatorie. Fra le strepitose danze in ralenti e le lente carrellate all’indietro che sfondano una parete per continuare a mostrare l’interno della stanza illuminata nel bosco innevato e notturno, e poi ancora fra i disegni su cui scorrono i titoli di testa e la straordinaria cura fotografica con cui le candele scandiscono i contorni dei personaggi, la sua macchina da presa si muove costantemente alla ricerca del giusto punto di vista, ora riempiendo i silenzi con le musiche shoegaze di Bobby Krlic e ora mettendo la sua cura maniacale dell’immagine al servizio dei dialoghi e soprattutto dei monologhi affidati al padre attore fra i più grandi di ogni tempo. Cercando sin da subito una propria personale via autoriale, che pur con tutti i suoi attuali limiti di inesperienza viene naturale difendere a spada tratta: un’idea di cinema in cui mescolare la luce e il buio, la parola e l’attesa, il caricarsi silenzioso della tensione e poi il suo improvviso deflagrare in una sola frase o magari in un sogno. Per un film, presentato meno di un mese fa al New York Film Festival e ora in anteprima italiana a Roma in Alice nella Città 2025 in (breve) attesa della distribuzione in sala prevista dal 6 novembre, che senza mai perdere di vista la questione storica e politica irlandese ancora oggi lacerante ben al di là dell’apparente riconciliazione fra le parti, preferisce concentrarsi senza alcun pietismo né ricatto sull’abbandono familiare e sulle sue conseguenze esistenziali tanto sui figli quanto soprattutto sui padri, sul mancato ascolto, sul difficile percorso di elaborazione e di ristrutturazione di una memoria, su un’accettazione che non può prescindere da una pinta di birra al pub, sulla necessità condivisa di ritornare a una serenità ormai apparentemente impossibile. Sulla forza e sulla caducità di un uomo che, semplicemente, dopo troppo soffrire non è più riuscito a resistere al male della propria anima. Proprio come sono destinati a crescere sani e forti ma poi inevitabilmente a sfiorire quegli anemoni del titolo, fiori dichiaratamente “di famiglia” coltivati prima da un padre e poi da un figlio, e forse in futuro da un altro ancora. Ma solo a patto di riuscire a salvarlo dalla sua solitudine e dal suo dolore, dal senso di abbandono, dalla propria colpa. Serve il coraggio di salire in moto e ritornare a dopo tanto tempo a guardarsi negli occhi. Forse senza nemmeno rendersi conto di come già in quel primo sguardo, su quei volti emozionati, stia tornando dopo chissà quanti anni a ridipingersi quasi impercettibile un sorriso.

Marco Romagna

“Anemone” (2025)
125 min | Drama | United Kingdom / United States
Regista Ronan Day-Lewis
Sceneggiatori Daniel Day-Lewis, Ronan Day-Lewis
Attori principali Daniel Day-Lewis, Sean Bean, Samantha Morton
IMDb Rating 5.9

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