Prima il Pardo d’Oro a Locarno, nel ’97, per Lo specchio. Poi il Leone a Venezia, tre anni dopo con Il cerchio. Nel 2015 l’Orso a Berlino con Taxi Teheran, quello forse sì Premio quasi esclusivamente politico di fronte a uno dei lavori meno riusciti di Jafar Panahi, ma non è questo il punto perché ne avrebbe meritati altri. Ora, nel 2025, il definitivo poker, o se si preferisce usare termini tennistici la chiusura del Grande Slam festivaliero che permette al gigantesco autore iraniano di raggiungere nell’en-plein Michelangelo Antonioni (mentre Robert Altman face sì il triplete Orso, Leone e Palma, ma non vinse mai il Pardo) con il trionfo anche sulla Croisette di Cannes. Un riconoscimento, la Palma d’Oro tributata dalla giuria capitanata da Juliette Binoche al suo Un simple accident, questa volta tanto impeccabile dal punto di vista politico – inevitabile nel caso di Panahi, solo da pochi mesi tornato in libertà dopo quasi un anno di carcere per punire la sua voce contro il regime – quanto da quello prettamente artistico, con una Palma d’Oro che mette d’accordo e soddisfa praticamente tutti, e che soprattutto che dopo qualche anno di idee di cinema e di titoli forse un po’ troppo innocui (il manierismo indie di Anora, ma pure i rapporti tossici di Anatomie d’un chute, e per motivi differenti anche l’insensibilità glaciale del doppio Östlund The Square e Triangle of Sadness o la provocazione un po’ fine a se stessa, patinata, di Titane) torna finalmente a incarnare quello che dovrebbe essere una Palma d’Oro, ovvero l’iscrizione a caratteri cubitali nella Storia della potenza espressiva e della stratificazione militante del cinema, della sua capacità di caricare di senso metaforico e paradigmatico di ogni suo meccanismo narrativo, della puntualità del suo sguardo e della palpitante ricerca di un proprio linguaggio attraverso cui trasporre in immagini la sua urgenza. Con due pianisequenza speculari e travolgenti, con tutte le ferite lacerate di un Paese, con un finale aperto e inquietante, con tutti i dubbi morali di chi, anche nella vendetta più legittima, è uomo e non mostro. Tanto più in un Concorso cannense (e in realtà non solo il Concorso, per un’edizione ‘anomala’ e proprio per questo particolarmente stimolante dal primo film della competizione fino alle chiusure dei fuori concorso, passando per la selezione ufficiale di Un Certain Regard e per l’indipendenza di Quinzaine, Semaine e ACID, ma pure per la libertà formale dei Classici – in testa Chaplin e Forman – e perfino dei film in spiaggia – Mamoru Oshii) fortissimamente politico, in cui contingenze e crisi produttive globali post-Covid hanno spinto la natura del lavoro di Thierry Frémaux (e quasi di conseguenza i criteri dei giurati con cui forgiare il buonissimo palmarès finale, nel quale suona effettivamente contraddittorio e paradossalmente fuori target solo l’ennesimo premio consecutivo, questa volta per la sceneggiatura, ai veterani fratelli Dardenne, e al massimo si può rimpiangere qualche assenza che forse avrebbe meritato tanto quanto i premiati) ad un netto ed evidente cambio di passo con cui allontanarsi dalla prassi – cannense – più consolidata dei “grandi (vecchi, soliti) nomi”, per ripartire alla ricerca di un cinema più giovane e che a sua volta segna una rottura dalla prassi – cinematografica – per cercare realmente di fare e di dire qualcosa di nuovo. Magari non ancora perfettamente riuscito e calibrato, magari un po’ sul filo dell’autocompiacimento o non ancora del tutto maturo, ma che non può che affascinare nell’evidenza del suo tentativo di strappo dalla consuetudine, e interessare profondamente nella sua intrinseca e inevitabile dialettica con il classico, con le aspettative, con l’immaginario pregresso e quindi necessariamente con le società messe sullo schermo e di fronte allo schermo.
Una programmazione che può quindi giocoforza vantare qualche capolavoro in meno rispetto agli anni di massimi lustrini (comunque garantiti dalla grandeur cannense, con tanto di ennesima straordinaria prova muscolare quando mezza Francia è rimasta bloccata senza nemmeno i semafori da quattro ore di black-out in seguito a un attentato a una cella elettrica, ma il Palais – e solo ed esclusivamente il Palais – non ha fatto altro che avviare i generatori di emergenza e andare avanti come se nulla fosse semplicemente ignorando il caos subito fuori dalle sue mura), eppure in fin dei conti, e a prescindere dai giudizi personali e pure dalle effettive riuscite dei singoli e non necessariamente perfetti lungometraggi, paradossalmente ancor più interessante del consueto per varietà linguistica e geografica, per lucidità autoriale, per impeto resistente e rivoluzionario, per la sostanziale sostituzione della medietà spesso piatta con quella novità che in altri anni sarebbe probabilmente stata relegata ad Un Certain Regard o alla Quinzaine o magari direttamente ignorata, e in ogni caso seppellita o quasi dal troppo che le sarebbe stato gerarchicamente sopra. Con il risultato di un livello medio molto più alto delle previsioni e paradossalmente interessante anche nelle sue cadute (Alpha, per dire, è un tentativo assolutamente non riuscito ma evidente di viaggiare in un immaginario personalissimo e graffiante come quello di Julia Ducournau, come pure l’Ari Aster confusionario e pericolosamente in zona ‘secondo’ David Robert Mitchell di Eddington può perfettamente respingere ma non certo lasciare indifferenti), per una selezione straordinariamente vitale nella sua freschezza di idee, urgenze e autorialità nuove, con cui ricominciare a mettere al centro il cinema nelle sue continue evoluzioni, nel suo eterno rinnovarsi, nel suo – come avrebbe detto Godard esplicitamente rievocato da Richard Linklater nel suo magnifico Nouvelle Vague, escluso dal palmarès ma non per questo meno emblematico di questa nuova onda cannense che si spera sinceramente che non rimanga un unicum – «smettere di fare film politici e ricominciare a fare i film in maniera politica». Una «maniera politica», tanto tematica quanto soprattutto formale, che è il vero e proprio filo rosso di Cannes78, e che emerge tanto dalle tracce sparse, tentacolari e contraddittorie che Kleber Mendonça Filho ha disseminato nel suo O agente segreto quanto dalle schegge di Storia cinese che Bi Gan fa passare attraverso le schegge cinematografiche/oniriche postmoderne (affascinanti ma, per lo meno per chi scrive, forse anche un po’ troppo paraculo nelle loro rievocazioni ipercinefile) di Resurrection, tanto dal rigore assoluto e dall’approccio chirurgico di Sergej Loznitsa nella messa in scena dei suoi Two Prosecutors quanto dalla assoluta libertà (negata/sognata/ucronica/im-possibile) dentro e Fuori secondo Mario Martone, tanto dalle esplosioni (letterali, musicali, del talento definitivamente sbocciato di Oliver Laxe) di Sirât quanto dai silenzi assordanti dell’indicibile (sguardo di Mascha Schilinski) lungo lo scorrere della Storia nell’unico luogo, nell’unica famiglia e nell’unica femminilità di Sound of falling. Tanto dalla ferocia antiborghese che Kelly Reichardt ha innestato nell’indie glaciale di The Mastermind quanto dalla ben precisa e all’opposto vibrante presa di posizione femminista di Saeed Roustaee con il suo splendido Woman (e come si diceva in recensione non semplicemente “Mother”) and child. Tanto dai poliziotti corrotti del Dossier 137 di Dominik Moll quanto dal cinema di regime egiziano di Eagles of the Republic di Tarik Saleh. Tanto, uscendo dal Concorso per approdare alle altre sezioni, dal Veneto industriale ubriaco secondo Le città di pianura di Francesco Sossai quanto dalle classi sociali di Enzo ultimo film di Cantet messo in scena da Campillo, tanto dall’indipendentismo québécoise animato di La mort n’existe pas quanto dagli sguardi di Petzold in Miroirs n. 3, tanto dal tempo e dalla Guinea Bissau post-coloniale di O riso e a faca di Pedro Pinho quanto dalla ricerca di urgenza espressiva nella baraccopoli di Ciudad sin sueño di Guillermo Galoe, passando per l’intelligenza artificiale assassina di Mission: Impossibile e per la robotica di Arco, per l’aperta distruzione magica del mito della frontiera (con tutto l’implicito che comporta) di Testa o croce? di Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis e dal puro esplicito Yes con cui l’oppositore Nadav Lapid mostra dall’interno i contorni orrorifici del nazionalismo sionista. Ma forse soprattutto dall’(anti)epopea del colonialismo di Magellano secondo Lav Diaz o dai primi tenerissimi approcci (dis)incantati al mondo di quella bambina senza contorni di Amélie et la Métaphysique des tubes, che avrebbero ampiamente meritato il Concorso e probabilmente anche qualche alloro, e che invece si devono “accontentare” di essere stati, dalle loro sezioni non competitive di Cannes Première e Seances Speciales, di gran lunga i film del Festival, quelli che ripagano di ogni stress e di ogni fatica, quelli che forse più di tutti, insieme alla Palma di Panahi e alle videochiamate di Sepideh Farsi con Fatma Hassona uccisa giovanissima da un razzo israeliano il giorno dopo aver scoperto che il “loro” film sarebbe stato presentato a Cannes ACID, resteranno scolpiti nel cuore e nella memoria cinefila. Come tappe fondamentali nell’eterno percorso di formazione come esseri umani, come nuove porzioni di visibile su cui allargare lo sguardo, come nuove diapositive da portare via nell’album dei ricordi più importanti. Come nuovi tasselli di un mosaico chiamato esistenza, da cui il cinema nasce e che il cinema sa rendere estremamente più interessante, dialettica, emotiva, politica, umana. Quando necessario straziante, e proprio per questo bellissima.
Marco Romagna