24 Febbraio 2025 -

75. Berlinale – Internationale Filmfestspiele Berlin_13-23 Febbraio 2025_Verifiche incerte

Man mano che ci si allontana dalla Berlinale, mentre scorrono gli ultimi titoli di coda della FilmFestSpiele numero 75, il ghiaccio che in questi giorni sembrava eterno si scioglie e la sagoma della gelida edizione che ha segnato l’esordio alla direzione di Tricia Tuttle si è oramai materializzata nella sua interezza nello specchietto retrovisore, viene quasi naturale ritrovare il principale filo conduttore della selezione in un titolo che portava in sé un ossimoro esplicito e identificativo di una traccia trasversale a molti dei lungometraggi presentati in gara e fuori. Il titolo in questione era Ancestral Visions of the Future, sezione Berlinale Special, regista il lesothiano Lemohang Jeremiah Mosese. Un titolo simbolicamente centrale non tanto per quello che sta dentro il film, quanto proprio per il suo nome: Ancestral e Future, ovvero “visioni ancestrali del futuro”, come nel passato si guardava al futuro. Sguardo sul dopo ma da una sorgente retroattiva, dove il cosa è il dopo, ma il come è il prima. Se dovessimo tradurlo in uno statement, sarebbe quello della nonna del piccolo Christophe in La Cache di Lionel Baier (concorso), ambientato nel Maggio del 1968 a Parigi. La nonna dichiara, attraverso la voice over dello stesso Baier, che non si deve pensare al passato, che non bisogna avere nessuna nostalgia, che si deve vivere nel presente. Il curioso camuffamento di una massima simile dentro un film in costume, retrodatato di 57 anni rispetto al presente 2025, ci dice di un modo ancestrale di guardare il futuro, un interrogativo sul dopo criticando o odiando o biasimando il prima. Il che, sia ben chiaro, non è una riflessione antistorica, bensì di coscienza polemica. Huo Meng, premiato con l’Orso d’Argento alla Miglior Regia per Living the Land, la Storia la conosce molto bene, e la attraversa da una prospettiva collaterale, quella di una lontana Cina rurale nel 1991, osservata dagli occhi di un bambino che come giocattoli usa proiettili e come grandi appuntamenti ricorrenti della vita ha la partenza o la morte dei suoi familiari, uno a uno. Gli eventi più storicamente connotati arrivano dalla radio, o dagli ispettori del regime che controllano se le regole sul numero di figli vengono rispettate; intanto, il piccolo Xu Chuang assiste inane al crollo di un piccolo mondo antico, vagamente ironico ma soprattutto funereo. Nulla per cui avere nostalgia, anzi: un provincialismo miope che della Storia capiva gli scampoli, raramente posto ad altezza sufficiente (anche di camera, ma soprattutto di coscienza) per comprendere in che punto della scacchiera del mondo si trovasse.

E se non bastassero i film storici antinostalgici, nel concorso c’era anche Blue Moon di Richard Linklater, che della storia infelice e dimenticata del paroliere Lorenz Hart si fa portavoce disilluso, dentro un piccolo palcoscenico di marionette comiche che maschera l’infelicità del protagonista. Il formato è quello del teatro a singolo atto (unità di tempo, luogo, azione), simile ma anche più compatto di quello di Peter Hujar’s Day di Ira Sachs, sezione Panorama, altro ritratto di un dimenticato ed ennesimo tassello di un mosaico su un passato infelice. In entrambi i film sono tanto mitizzati certi momenti storici (gli USA di Broadway degli anni ’40, la New York dei poeti beat degli anni ’70) quanto sono evidenziate le tristezze più schiaccianti che si cela(va)no dietro il sipario. In entrambi i film, quanto più logorroici sono i protagonisti tanto più il loro fiume di parole sembra atto compensativo di una Storia che li ha messi da parte, occasione per volare in un mondo che non guarda più il cielo. Anche Peter Hujar’s Day si stringe su un dispositivo, quello dell’audio-intervista della Linda Rosenkratz di Rebecca Hall al fotografo Peter Hujar interpretato da uno smagliante Ben Whishaw, e anche Peter Hujar’s Day si inquadra in un’unità di luogo ma con piccole ellissi temporali e piccoli salti d’azione. E pure Ira Sachs, come Richard Linklater, disinnesca la nostalgia per gli allestimenti della storia, per svelare lo spleen del suo dietro le quinte. Ma non è finita qui. Lorenz Hart era un paroliere, Peter Hujar era un fotografo, e i protagonisti di La tour de glace di Lucile Hadzihalilovic, di Reflet dans un diamant mort di Hélène Cattet e Bruno Forzani, e pure di Girls on Wire di Vivian Qu, lavorano dentro il mondo del cinema. Un cinema fuori tempo o del tempo passato, evocativo del muto (Hadzihalilovic), o del poliziottesco spionistico (Cattet/Forzani), o ancora del wuxiapan (Qu). Un cinema carnivoro, che mastica e risputa i suoi performer in deliri di potere, di sottomissione, di sfruttamento. Il riferimento al cinema del passato è solo il magnete su una bussola, un indirizzo interpretativo e narrativo per lo spettatore, ma per i personaggi è l’ingresso in un labirinto. L’adolescente Jeanne non sa cosa prova per la diva Cristina, e quindi non riconosce l’esca che la sta facendo cadere in una trappola; John D non sa più se in passato lui era una spia, un interprete di una spia o addirittura il fumetto di una spia, e si riflette in un diamante che è il cinema e che è già un zombie; Fang Di fa la stuntwoman per i wuxiapan ma è sfruttata, mal trattata in quanto donna, incapace di guadagnare a sufficienza per aiutare la sua famiglia. È un catalogo di un tipo di illusioni del passato che andrebbero distrutte, nonostante siano maledettamente attraenti.

Senza penetrare i conflitti del passato dei singoli personaggi (Ari nell’omonimo film di Léonor Serraille e la Sofia di Emma Mackay in Hot Milk ne sanno qualcosa), colpisce quindi l’ampiezza collettiva del sentimento antinostalgico di questa Berlinale di Tricia Tuttle. Un filo conduttore che è sì forse in definitiva più tematico che realmente di sguardo e di programmazione, e che non necessariamente coinvolge i colpi al cuore – non moltissimi, in realtà, ma in testa c’è certamente il Leibniz di Edgar Reitz – di questa Berlinale a tratti avara ed apparentemente un po’ “a strascico”. Eppure, fra gli orizzonti un po’ troppo spesso asfittici degli esordi di Perspectives e il continuo avvicendarsi di tante, probabilmente troppe, differenti idea di cinema in cui è oggettivamente difficile trovare reali e coerenti traiettorie nella composizione delle sezioni, questo sentimento antinostalgico è un qualcosa di presente e ricorrente, un elemento che più volte e in più forme emerge chiaro come una sorta di attacco al patrimonio culturale, alla spinta deterministica che vorrebbe la Storia utile al presente. Come uno sprone alla malleabilità della Storia. Si pensi a No Beast. So Fierce. di Burhan Qurbani, in Berlinale Special, che riadatta il Riccardo III di Shakespeare trasponendolo in una Berlino brechtiana in cui si scontrano due famiglie criminali di arabi con tanto di gender-swap che trasforma Riccardo in Rashida. O a Mickey 17 di Bong Joon-ho, Berlinale Special, che fa una miscellanea del cinema di Harold Ramis (Duplicity, Groundhog Day) e di quello del loop fantascientifico più contemporaneo (Source Code di Duncan Jones, Edge of Tomorrow di Doug Liman) per ragionare su una duplicazione coatta che toglie alla morte il suo ruolo protagonista nel ciclo della vita (e della Storia, appunto). O ancora a Je n’avais que le néant – Shoah par Lanzmann di Guillaume Ribot, Berlinale Special, che torna sul capolavoro di Claude Lanzmann per sottolineare l’enormità della sua impresa titanica ma anche la frustrazione del suo regista schiacciato dal peso di una morte che, al contrario della fantascienza di Mickey 17, connota la Storia in modo inequivocabile. È un tentativo di rompere con la Storia, questo Festival, nonostante le forme siano un eterno ritorno al pre-esistente; è un tentativo di rivederne gli strascichi, forse di responsabilizzarla a forza per i traumi del presente, forse di ammettere che non l’abbiamo capita e siamo solo tutti perduti.

Marco Grifò

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