15 Ottobre 2015 -

VIAGGIO ATTRAVERSO LE STAGIONI
TORNA AL CINEMA YASUJIRO OZU

Il viaggio dei restauri in digitale di alcuni dei più importanti capolavori di Yasujiro Ozu ha appena concluso la sua sosta al cinema Lumière di Bologna. Una settimana per (re)immergersi in cinque film del Maestro: Viaggio a Tokyo (1953), Fiori d’equinozio (1958), Buon giorno (1959), Tardo autunno (1960) e Il gusto del sakè (1962). Cinque importantissime opere che ritornano al cinema, sia per chi già le conosceva sia per chi, come me, attendeva con ansia un’occasione di poterle ammirare sul grande schermo per la prima volta. Può essere quindi questa anche un’occasione anche per tornare a parlare di uno dei più acclamati e consolidati autori della storia del cinema? Possono veramente essere spese ancora delle parole in merito a un cinema così immediato e puro come quello di Yasujiro Ozu? Preferisco intendere queste poche parole come un omaggio, molto piccolo e modesto, che mai potrà rendergli giustizia, ma che ambisce unicamente alla sincerità e alla genuinità.

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Tutti e cinque sono dei “gendaigeki”, quindi drammi del mondo contemporaneo. Trame che ruotano attorno al nucleo tematico fondamentale dei rapporti familiari, come in Viaggio a Tokyo (unico film in bianco e nero della rassegna) in cui due genitori anziani si recano a trovare i loro figli ormai adulti e sposati, salvo poi scoprire come nulla vada mai come previsto. Fiori d’equinozio, il primo film a colori del regista, si apre invece con un matrimonio durante il quale il protagonista, un padre di famiglia, celebra gli sposi e il fatto che abbiano avuto la possibilità di sposarsi per amore, a differenza sua, ma sarà proprio lui a voler costringere sua figlia ad un matrimonio combinato. Altri adulti chiaccheroni e ipocriti si scontrano in Buon giorno, con due fratellini che inaugurano uno sciopero del silenzio e della fame per costringere i loro genitori a comprare un televisore. Il matrimonio torna al centro di Tardo autunno, in cui tre amici d’infanzia ormai nel pieno della mezza età cercano di trovare dei mariti a una vedova di cui da ragazzi erano tutti invaghiti e alla sua giovane figlia, per permettere ad entrambe di ricominciare a vivere dopo la morte del padre. Simile per spunto narrativo anche Il gusto del sakè in cui un vedovo vuole che sua figlia si sposi onde evitare di finire come il suo vecchio insegnante, “lo Zuccone”, che ha impedito a sua figlia di prendere marito perché si prendesse cura di lui.

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Trame quindi quasi minimali, ma che già rivelano ad un primo livello la straordinaria sensibilità di Ozu in merito alle problematiche socio-culturali di un Giappone che si affaccia a un’era moderna, in cui i vecchi padri hanno perso ogni autorità e le giovani ragazze diventano sempre più furbe, come ci dicono in Tardo autunno. Il Giappone ha perso la guerra, l’Occidente sta arrivando: il microcosmo del piccolo gruppo di case di periferia di Buon giorno è esso stesso un arcipelago invaso dagli elettrodomestici, dalle parole inglesi che i bambini imparano a scuola e che ripetono poi a casa. E sebbene i genitori non possano che averne paura, alla fine dovranno accettare la fine di un’epoca e l’inizio di un’altra, come fosse un inarrestabile ciclo di stagioni. Il fiume del tempo e della vita che scorre, dunque, ma che lo fa in mezzo ai tempi morti, alla quotidianità, alle piccole cose che abitano nelle stanze di case tradizionali scomposte in forme pure, minimali, a descrivere quasi una geometria del sentimento. Perché infatti la grandezza nell’opera di Ozu sta proprio nel riuscire a far trapelare l’immensità della vita e della sfera delle relazioni umane da semplici primi piani rigorosamente frontali che sembrano ritratti, e da composizioni ambientali che si trasformano in nature morte quando i personaggi lasciano la scena. E la mdp che si ferma a fissarle sembra cercare tracce di una vita che circola ancora nell’aria di quella stanza, come accade soprattutto in Fiori d’equinozio, o viceversa a piangere una persona che non vi tornerà mai più, come nel tragico finale de Il gusto del sakè. Stanze e ambienti che ritornano costantemente in tutti i film: un universo coerente ma in continua evoluzione, abitato da un gruppo di attrici e attori che finiscono per diventare personaggi e archetipi ricorrenti, quasi immagini, ricordi. Gli stessi ricordi che riposano nella mente di vecchi compagni di gioventù e che rivivono nelle loro lunghe chiacchierate davanti al sakè, unico vizio di questi guerrieri che ridono del tramonto che stanno attraversando. Ma anche quando tornano a casa ubriachi e vengono sgridati, non sono mai veramente da biasimare: gli uomini dei film di Ozu sono sì degli inetti che tentano costantemente di mascherare la propria debolezza dietro a una fasulla autorevolezza, ma in realtà non sono altro che vittime dei propri errori, poiché solo gli dei sono coerenti. I genitori quindi peccano solo di aver avuto troppe aspettative nei confronti dei figli, mentre questi ultimi, diventando adulti, finiranno irrimediabilmente per allontanarsi da loro. La vita non va mai come previsto, proprio come il viaggio a Tokyo dell’omonimo film: dai programmi per il pomeriggio che saltano a causa di impegni di lavoro fino all’inaspettato sopraggiungere della morte. Ma la fine di qualcosa è solo un altro inizio: la vita continua a richiamarci, a spingere a ricominciare, ad andare avanti. Così noi come i personaggi di Ozu saliamo su treni che portano verso un futuro più radioso, e chi rimane a bordo dei binari, come chi si ferma sui ponti ad ammirare l’acqua che scorre, mutevole e sfavillante, riesce a scorgere il tempo che passa, a ricordare i volti del passato. Ed è tutto sempre leggero, sereno, pacato, delicato; è un cinema che va respirato, vissuto, più che semplicemente visto o ascoltato. L’unica grande verità che par venire alla luce dal cinema di Ozu è che alla fine, dietro ai rapporti familiari, alle convenzioni sociali, non siamo altro che esseri umani. Ed esserlo forse significa anche essere condannati alla solitudine, come ricorda Il gusto del sakè, il più scuro e amaro film della rassegna, nonché, per cause di forze maggiori, l’ultimo della carriera del Maestro.

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Una filmografia che è un patrimonio inestimabile sia per la Storia del cinema che per quella dell’umanità intera; un’eredità mai trascurata, che anzi appena due anni fa è tornata viva più che mai in quel miracolo che è La storia della principessa splendente (2013) di Isao Takahata, forse non a caso proiettato al cinema Lumière pochi giorni prima dell’inizio della rassegna. E l’immensa luce, che riesce a illuminare tutta la vita stessa, sprigionata dal piccolo fiore appena sbocciato che è questo miracoloso film, continua a ricordarci che “la primavera sta tornando”. Sulla pagina Facebook della cineteca di Bologna, ci chiedono: “Perché (ri)vedere i film di Ozu?” Perché siamo esseri umani, e (quasi) nulla è umano quanto il cinema di Ozu.

Tommaso Martelli

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