4 Settembre 2018 -

THE RIVER (2018)
di Emir Baigazin

Il cinema del regista kazako Emir Baigazin appare sempre più come una mappatura di ciò che lo circonda, una ricostruzione frammentaria di attimi, un’immersione in realtà parallele che hanno bisogno di attraversarsi. Ecco quindi che in The river, opera terza presentata negli Orizzonti veneziani edizione 2018, torna il villaggio con la sua autenticità lenta e astratta, con poche possibilità di essere percepita dall’esterno, e con mancanza assoluta di comunicazione. Lì, quasi come ci fossero dalla notte dei tempi, una famiglia di cinque ragazzini nel momento fondamentale della formazione, il distacco dai propri genitori, negli attimi che precedono una presunta affermazione della propria singolarità. Sarà il più grande dei fratelli ad assumere le veci del padre, ma in maniera assai più comprensiva, coprendo eventuali fraintendimenti ed errori anche davanti agli occhi del capo-famiglia. L’ultimo rito per farli diventare davvero grandi così rimane il bagno nel fiume che segna tempi e spazi della comunità, quel serpentone di correnti d’acqua che dà la vita come può toglierla. L’esistenza dei cinque è così scandita, e si esercita nella propria atemporalità che appare sempre più inscalfibile e incapsulata in una quotidianità equamente divisa tra compiti e giochi, sogni e lentezza, campi lunghi e primissimi piani. Un giorno però, quasi dal nulla, si palesa al villaggio un ragazzo di città con giacca catarifrangente, strambi aggeggi di locomozione e un quadrato nero che interagisce con il reale, tanto da crearne possibili infiniti. Quando i ragazzi scoprono il tablet e i videogiochi quello spazio rimarrà irrimediabilmente lacerato, e anche il fiume non sarà più lo stesso. È la rottura di una pace quasi eterna o la problematizzazione di un nuovo oggi?

Baigazin lavora nella frattura creata dalla contemporaneità su questo villaggio, cresciuto nell’auto-esilio di un padre dispotico e di una madre poco presente. Una realtà simbolica quanto mai fragile e dagli equilibri assai precari, totalmente ribaltati da quel visitatore occasionale che mostra ai ragazzi universi nuovi e altri, tecnologie che permettono di interfacciarsi con altri piani, come le notizie della tv che tornano a propagarsi per casa. I rapporti nella famiglia cambiano così irrimediabilmente, ma a quale prezzo? Un bel giorno il ragazzo venuto dalla città scompare nel fiume, nel silenzio anonimo dei fratelli che subito non appaiono così preoccupati e più tardi non si mobilitano per la scomparsa. Erano diventati più aridi, meno inclini ad aiutarsi, pronti a rinfacciarsi qualsiasi minima storia del passato. Il più grande iniziava ad esercitare l’autorità del padre, mentre solo il più piccolo stava sulla riva del fiume pregando che il cugino venuto dal futuro riemergesse dalle acque. Proprio nel momento in cui i fratelli sono pronti a confessare, eccolo ricomparire, quasi miracolosamente. Pronto a tornare nella città con le sue diavolerie tecnologiche, mentre i ragazzi tornano assieme sulla sponda del fiume, quello che può anche esaudire i desideri. Anche se forse il loro unico desiderio ormai è che tutto possa tornare come prima, e l’impressione è che questo, dopo una cos’ radicale lacerazione, sia ormai irrealizzabile. E non si può sapere se il tempo potrà mai ricominciare a fermarsi in quello spazio così unico.

Proprio come afferma lo stesso Baigazin, The river è l’ideale chiusura della cosiddetta trilogia di Aslan, l’evoluzione dei capitoli precedenti (Uroki Garmonii e Ranenyy Angel) in cui la morte non era soltanto evocata ma esercitata. Qui, al contrario, il trapasso è solo possibilità e tensione, intenzione continua che pare trovare validità proprio nel destino. I campi spesso sono lunghissimi e quasi infiniti, i cinque ragazzi sono figure che si muovono asincronamente nel paesaggio da esplorare continuamente e mai uguale a se stesso, i loro corpi a contatto con l’acqua sono sempre bagnati dalla luce che li riveste di una brillantezza che solo la giovinezza può donare, e i loro orizzonti sono al contrario spesso castrati e in netto contrasto con quelli di un Kazhakistan arido e luminoso, che confonde la traiettorie di terra e cielo. Il realismo poetico di Baigazin così si mostra, a tratti sublime e in (un po’ troppi) altri più stanco e ossessivo, quasi incapsulato come le vite di ragazzi in attesa di qualche rivelazione. Ogni risposta però sembra che solo il fiume la possa contenere, con la sua simbologia continua di passaggio come di pericolo, metafora di ciò che non si conosce e di una riva che si dovrebbe, con coraggio, abbandonare. In continuo bilico tra eccessi formali e libere flagranze, The river giunge a un piano puramente astratto e metaforico, a una presa di coscienza di eterni ritorni come dell’impossibilità di sradicarsi totalmente da un imprinting soffocante, e poco importa se qualche problema di ritmo finisce per sminuirne parte del potenziale, mentre con qualche sforbiciata quello che è un buon film sarebbe potuto tranquillamente essere un gran film. Perché probabilmente non esiste un vero equilibrio tra il vecchio e il nuovo, tra la chiusura ancestrale e la deriva del contemporaneo, tra i valori del passato e i (dis)valori del futuro. Solo la prospettiva, quanto mai personalissima, può essere la soluzione. Conoscere ciò che ti circonda per imparare qualcosa su te stesso, in primis, al di là di qualunque Prometeo di in-civiltà possibile. Se non è proprio la soluzione, almeno è il tentativo di porsi la stessa domanda con un altro linguaggio.

Erik Negro

 

[edit: vincitore del premio per la miglior regia nella categoria Orizzonti]

“The River” (2018)
Drama | Kazakhstan
Regista Emir Baigazin
Sceneggiatori Emir Baigazin
Attori principali N/A
IMDb Rating N/A

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