1 Febbraio 2024 -

STEPPENWOLF (2024)
di Adilkhan Yerzhanov

È ancora una volta un’odissea esistenziale pronta a emergere dalle forme del film di genere, il cinema di Adilkhan Yerzhanov. Un western che guarda apertamente alle figure appoggiate allo stipite della porta di Sentieri Selvaggi, un action ad alto tasso muscolare, un thriller sociopolitico complicato come un cubo di rubik, un revenge movie di sangue e pallottole, una distopia nel mezzo di una sanguinosa e indefinita guerra civile, una commedia surreale irresistibilmente spassosa e pervasa di un’ironia nerissima, un jidaigeki samurai di violenza ineludibile e di immutabili destini. Ma soprattutto l’ennesima occasione, rigorosamente mobile nel perpetuo rutilare di un road movie fra la sabbia, il sole e i posti di blocco delle steppe kazake, per scandagliare i più dilanianti dilemmi morali fra il Bene e il Male, fra la colpa e il dolore (del passato/del presente), fra il reciproco confronto – lei che da muta impara a parlare, lui che da cinico e violento impara progressivamente ad ascoltare, e magari a sua volta ad aprirsi – e la possibilità (o meno) di una redenzione. Bastano due personaggi principali a Steppenwolf, due reietti, due ultimi, due opposti come il diavolo e l’acqua santa che non potranno che inevitabilmente attrarsi, alleati e antagonisti, per molti versi nemici eppure unica persona al mondo di cui potersi fidare. Da una parte un ex detenuto ben volentieri riciclatosi nel ruolo di sostanziale sbirro cattivo, spietato detective e torturatore nei più violenti interrogatori che non si fa alcun problema a tradire, mutilare e uccidere qualsiasi ostacolo gli si pari davanti, e dall’altra una madre disperata, che riesce a malapena a balbettare il nome del suo figlioletto sparito dall’altalena ma che sarà progressivamente disposta a tutto pur di ritrovarlo e di salvarlo da un atroce destino. Un incontro che inevitabilmente li porterà a interrogarsi su quanto la nobiltà di un fine superiore possa giustificare qualsiasi mezzo da utilizzare per raggiungerlo, su quanto si possa o anzi sia necessario diventare spietati e violenti per poter sopravvivere in un mondo ancor più spietato e violento, corrotto, putrescente, irrimediabile. Un mondo di commandi paramilitari e di continui agguati bellici in un conflitto apparentemente tutti contro tutti senza possibile via d’uscita, nel quale è ormai impossibile estrapolare una verità o anche solo che un reale senso, si può solo andare avanti nella ricerca del bambino scomparso, mossi dalla (complicata) fiducia reciproca e dalla speranza di poterlo ritrovare ancora vivo, dall’umanità frastagliata dell’altro come ultimo piccolo residuo squarcio di fede e di giustizia fra le esecuzioni sommarie e le auto in fiamme. Yerzhanov mette in scena il percorso dei suoi protagonisti come una parabola netta, in sottrazione, quasi stilizzata nel ripetersi ciclico e copioso di una violenza mai trattenuta e che non ha (più) bisogno di reale motivo per deflagrare, in film che parte citando Herman Hesse e il suo omonimo Il lupo della steppa per ricontestualizzarne le medesime tematiche psicanalitiche e spirituali in un luogo, in una società e in una vicenda totalmente differenti da quelli immaginati dallo scrittore svizzero-tedesco, ma impregnati della medesima impossibile necessità di bilanciare lo spirito e l’istinto, la ragione e la rabbia, la parte umana e la parte animalesca. Un interfacciarsi (im)possibile, alla ricerca della bestia che si nasconde nell’uomo e dell’uomo che ancora sopravvive nella bestia, con cui disperatamente trovare un punto di equilibrio nell’esistenza e nella (propria) natura, con cui ricominciare a vedere qualcosa nel caos.

Il resto è un miracoloso equilibrio, legato dai tappeti elettronici composti da Galymzhan Moldanazar con un evidente orecchio ai Goblin “cinematografici” degli anni Settanta-Ottanta e al John Carpenter compositore, fra i τόποι più fondanti dei tanti generi che Steppenwolf vuole mettere insieme, destrutturandoli in una sorta di Mad Max rabbioso e brutale (o se si preferisce a un videogioco sparatutto in cui uccidere per sopravvivere un livello dopo l’altro), ma che sa ricorrere quando necessario al fuoricampo e a un’ironia nera e scorretta (basterebbero gli occhiali da sole a forma di cuore inforcati per brutalizzare il cattivo di turno, o gli atti sessuali ridicolmente simulati dal protagonista al volante) attraverso il cui filtro sdrammatizzare e virare ogni possibile eccesso verso l’assurdo e l’aperta risata. Un film depistante sin dalla prima sequenza che mostra quello che si scoprirà poi essere il detective trasportato in caserma incatenato e incappucciato come un prigioniero, e che nel lavorare apertamente alla commistione di linguaggi e archetipi del cinema classico e moderno dichiara e omaggia in maniera manifesta i suoi modelli di riferimento (il già citato John Ford di Sentieri Selvaggi di cui Yerzhanov ruba l’inquadratura più iconica, ma anche l’Howard Hawks de Il fiume rosso con le sue (ri)conciliazioni (im)possibili, le variazioni sul tema da Peckinpah a Tarantino, il sarcasmo beffardo e umanissimo di Kaurismäki, la malavita di Scorsese e Melville, e soprattutto il ‘solito’ Takeshi Kitano tanto di Zatoichi quanto di un qualsiasi yakuza-movie, da sempre vera e propria guida spirituale per l’autore kazako nella ricerca della purezza assoluta destinata a emergere lentamente da personaggi controversi) ricombinandone le regole e le possibilità in un tessuto narrativo e visivo elegantissimo, fatto di figure nel paesaggio in campi lunghi sulle pianure sterminate e di ravvicinati close-up durante l’ennesima fuga su un camion, fatto di mani che si avvicinano sulla leva del cambio per mettere insieme la prima e di parole che lentamente emergono intorno a un fuoco, fatto di chiaroscuri tagliati nella notte e di donne che appaiono quasi come angeli fra proiettili e scintille. Uno stile rigoroso e perfettamente riconoscibile con cui il prolificissimo Yerzhanov, giunto al quindicesimo lungometraggio in dodici anni di carriera, sbarca ancora una volta all’International Film Festival di Rotterdam, questa volta in prima mondiale e nel concorso Big Screen Competition, con il suo cinema di interrogativi profondi e di speculazioni morali ma non per questo meno popolare, intriso di filosofia e di letteratura eppure assolutamente votato al genere, all’intrattenimento e alla brillantezza di dialoghi, ritmi e situazioni. Un cinema di vestiti progressivamente sempre più sporchi di sangue e di metodi di interrogatorio via via più persuasivi, di auto senza ruote né cric e di martelli insanguinati, eppure in cui il cinismo del lupo della steppa protagonista gradualmente si dissolve in dolore umano, figlio di traumi e di sensi di colpa, di nemici “creati” per avere risparmiato loro la vita in passato e ora causa della guerra civile, mentre la donna che lo ha assoldato si inerpica in un percorso uguale e contrario, verso la forzata spietatezza, verso gli occhiali da sole prima della battaglia, verso il male che è necessario fare per poter ottenere il bene. Complessità che Steppenwolf affronta di petto, fra lotte solitarie e improbabili alleanze, fra sterzate improvvise e stravolgimenti imprevedibili che non cambiano il percorso di destini inevitabili, fra l’adrenalina dell’azione e l’inaspettata commozione che deflagra quando meno la si aspetta. Fino alla morte, se necessario: l’unica possibile liberazione, il più grande atto di affetto e riconoscenza. Certo, qualcuno potrebbe forse rimpiangere le vette poetiche assolute di The gentle indifference of the world, ad oggi miglior lavoro per distacco di Adilkhan Yerzhanov. Ma sbaglierebbe a non considerare Steppenwolf, come già prima A dark, dark man o l’ottimo Yellow cat (ma pure il meno riuscito Goliath, comunque coerentissimo nel percorso autoriale di esplorazione dei generi) il grande film che è. L’ennesima tappa di un’autorialità fortissima, profondamente intelligente nel rielaborare il passato alla ricerca di una nuova ricombinazione degli elementi, fra gli sguardi più cinefili e appassionati di un’intera giovane generazione che sarebbe semplicemente delittuoso relegare ai margini di una provenienza percepita come “esotica”.

Marco Romagna

“Steppenwolf” (2024)
102 min | Thriller | Kazakhstan
Regista Adilkhan Yerzhanov
Sceneggiatori N/A
Attori principali Anna Starchenko
IMDb Rating N/A

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