24 Novembre 2014 -

Questioni di metodo
non di feeling

Fin dalla fine del XIX secolo, parte della migliore critica d’arte ha condotto una dura lotta contro la radicata distinzione tra Arti Maggiori e Minori. E’ merito di questi studi se oggi approcciamo ad un’opera d’arte liberi da quelle rigide impostazioni che volevano la pittura superiore alla scultura o che attestavano il primato del disegno sul colore. Per non parlare dell’oreficeria, la lavorazione del vetro, l’incisione o l’ebanisteria che sono state a lungo considerate come semplice artigianato e che, nel corso del ‘900, hanno giustamente ritrovato dignità di opere d’arte.

Raramente però è accaduto che gli storici dell’arte si concentrassero sul cinema. Curiosa lacuna, per quella che è stata definita come la settima arte. Qualche eccezione, clamorosa e monumentale, vi è stata. Ma ciò è avvenuto quasi sempre con lo spirito di un personale divertissement che mostrasse la scintillante capacità di cogliere le analogie iconografiche tra alcuni film di taluni registi e i loro riferimenti figurativi. L’affair Pasolini ne è un facile esempio: in moltissimi hanno scritto intorno alla relazione tra Pasolini, Rosso Fiorentino, Pontormo o Piero della Francesca. Ma erano tutte citazioni evidenti di un regista che aveva studiato con Roberto Longhi e che discendeva dal ramo più fecondo della critica d’arte italiana, quello di Pietro Toesca. E’ stato Pasolini a parlare lo stesso linguaggio della Storia dell’Arte, purtroppo non viceversa. Gli storici dell’arte si sono limitati a cogliere il suo colto citazionismo figurativo, come se non competesse loro approfondire le relazioni tra quei modelli di riferimento e quel cinema rinnovato che si poneva alla nuova società italiana nello stesso modo in cui Caravaggio era deflagrato nella società del tempo.
E’ un po’ come se davanti alle innovazioni artistiche di Picasso, gli storici dell’arte si fossero limitati a cogliere solo le analogie con le pitture rupestri primitive e tutto il resto (il nesso con la contemporaneità) non fosse stato degno di nota.

E’ dunque mancato, almeno in Italia, un approccio diretto che mettesse in relazione l’evoluzione del linguaggio iconografico con quello cinematografico. Eppure mi sembra decisamente ragionevole supporre che l’immagine cinematografica sia in costante rapporto dialettico con quella dipinta e che nello studio di questa evoluzione stia l’unica possibilità perché la Storia dell’Arte possa scartare il rischio di divenire una disciplina morta.
Questa enorme lacuna, in Francia in parte colmata dal rigoroso approccio metodologico di Bazin e seguaci, nel nostro Paese ha generato deformazioni abominevoli di intere generazioni di critici cinematografici completamente analfabeti di linguaggio figurativo.
Troverei molto ipocrita, senza aver mai visto una stampa giapponese, parlare del cinema di Kurosawa e pretendere di spiegarne la fotografia allo spettatore ignorante tanto quanto me. Oppure parlare di Orson Welles senza scorgere il comune senso tragico con Rembrandt.

Parte della critica di oggi si pone davanti ad un film esattamente come uno studente delle medie di fronte ad un fondo oro di Simone Martini: ne rimane forse incantato, ma non lo riesce a decifrare, non lo capisce. Figuriamoci se riesce a spiegarlo agli altri. Ecco, forse bisognerebbe intendersi sul ruolo di critico (d’arte o cinema, poco importa). Io rimango affezionato all’idea del critico che cerca di rendere comprensibili le cose più difficili e che cerca di esprimersi in un linguaggio piano e lineare. Mi accorgo invece che molti critici cinematografici sono degli abili ballerini e che la loro professione si riduce al “sorprendismo” linguistico, con tante belle immagini poetiche, oscuri riferimenti para-cabalistici, ascese metalinguistiche degne di Manlio Sgalambro. Alcune, ammetto, sono davvero notevoli nei loro volteggi luccicanti. Poi però ti metti disciplinatamente a fare l’analisi grammaticale e scopri la loro totale inesistenza.
Ecco l’esigenza di scrivere di cinema deve essere subordinata ad una metodologia, anche non conforme, non convenzionale, non paradigmata, ma pur sempre strutturata.
Senza, la critica cinematografica è destinata alle sbrodolature adolescenziali o, peggio, a rifugiarsi in un tweet.