16 Febbraio 2022 -

O TRIO EM MI BEMOL (2022)
di Rita Azevedo Gomes

Ci siamo mai chiesti cosa sia l’arte? Da dove nasca il bisogno di rappresentare? Perché non ci basti vivere la nostra vita vera e ascoltarne altre mille con i racconti degli altri, ma dobbiamo necessariamente vederci riprodotti, duplicati, donati, piazzati là in un libro, in un film, un giorno in un ologramma o forse in qualcos’altro, come un microchip impiantato nel cervello che ci immerga in realtà parallele? Perché insomma abbiamo bisogno della finzione e dell’immaginario oltre che del reale? Il romanziere Javier Marias lo spiega benissimo quando dice che l’uomo «ha bisogno di conoscere il possibile oltre che il vero, le congetture e le ipotesi e i fallimenti oltre ai fatti, ciò che è stato tralasciato e ciò che sarebbe potuto essere oltre a quello che è stato». Non siamo fatti solo di ciò che siamo, ma anche del terreno «incerto, indeciso e sfumato» di ciò che avrebbe potuto essere. E talvolta questo supera la realtà con una nuova forma di verità alla quale ci appelliamo, forse per amarci di più. Questo è il caso di O trio en mi bemol di Rita Azevedo Gomes, piccola perla di meraviglia nascosta nella sezione Forum della Berlinale 72. Un film sulla costruzione di un film sull’omonima commedia breve in sette quadri di Éric Rohmer, unica pièce teatrale del regista francese nata idealmente come quinto capitolo mai realizzato di Renette et Mirabelle, che si distacca dai quattro precedenti nel non raccontare le avventure delle due amiche così diverse ma così in sintonia, bensì il ritrovarsi di una coppia di ex amanti nell’arco di un anno scandito da sette incontri sulla falsariga del trio per pianoforte clarinetto e viola, ritenuti dissonanti tra loro fino al 1786 in cui Mozart decise di metterli insieme in una composizione capolavoro. Una musica che forse proprio per questo diventa metafora dell’amore, le cui difficoltà, incomprensioni e disarmonie non sono altro che la sua vera armonia. Rohmer lo mette(va) in scena nel suo modo canonico, con quello sguardo come sempre trasparente, sottilmente distaccato ma mai distante, minimalista perché non serve molto per capire i suoi protagonisti a volte «allegri di fuori ma tristi di dentro»; con quella semplicità disarmante e assoluta figlia di una lucidità che non si perde in esaltazioni romantiche e non “imbelletta” i suoi personaggi – eroi insicuri, teneri, svampiti, a volte patetici, chiacchieroni, testardi, immancabilmente adorabili e assolutamente imperfetti in quelle loro caratteristiche talvolta più forti di loro. Basta semplicemente ascoltare i fiumi di parole con ognuno di loro è disposto a raccontarsi, a scontrarsi, a definirsi, ad autoincorniciarsi nella propria visione di vita sempre messa in gioco dagli eventi della stessa, in una dialettica continua fatta di opinioni, prese di posizione morali e mai moraleggianti, modus cogitandi (e raramente operandi) espressi fino all’esaurimento. Sono queste piccole battaglie razionali e queste increspature emotive, queste frizioni tra l’egocentrismo innocente e l’amore cocciuto ad animare i suoi film di un realismo “svagato” e sincero che parla a tutti e parla di tutti se solo siamo disposti a dargli il tempo di sedimentarsi nei nostri cuori.
Non ne serve troppo per innamorarsi di Paul e Adèle da quando «Suonano alla porta. Paul va ad aprire. Adèle entra e gli getta le braccia al collo», come recita la prima delle pochissime indicazioni presenti in un copione che si sofferma più sull’atmosfera che sulle azioni. Le sfumature delle foglie rossicce, il tempo grigio, gli alberi spogli, il sole che splende e gli alberi di nuovo verdi di un Rohmer storicamente ossessionato dalle quattro stagioni come nei suoi celebri Racconti, sono l’umore che accoglie lo svolgersi di una vicenda a due interamente chiusa in un appartamento parigino – ma che può tranquillamente essere portoghese, come in questo caso – dove semplicemente parlano. Parlano di loro stessi, del passato e del presente, degli amorini passeggeri di lei (emblema della spontaneità e del “per adesso”) che rendono geloso lui (emblema della ponderazione intellettuale), ma soprattutto del loro amore di una volta, delle loro passioni di sempre e delle loro differenze. E di musica. Tutta la vicenda, del resto, ruota intorno alla musica, espressione più lampante della loro diversità in realtà poi meno assoluta di quanto essi stessi non credano, e veicolo delle loro incomprensioni, dell’azzardo e del vero incontro, termini sopra cui si costruisce gran parte della filmografia dell’autore francese. Una musica che è vitale perché, come dice Paul, il suo interesse per questa «nasce dal cuore di noi stessi, come quello che si prova per una donna e non per un’altra» e sovrasta ogni cosa al punto che lui stesso non potrebbe amare una donna che non ami la sua stessa musica. Lei è per il rock, lui per la classica sì, ma non sono i gusti a dividerli, per quanto per una coincidenza lei lo abbia lasciato proprio per un musicista rock. È proprio un pezzo specifico a portare al fraintendimento alla Marivaux che occupa la seconda parte della pièce, un pezzo che è una scoperta per entrambi di cosa sia la grande musica da quando questa smette di essere «qualcosa di freddo, vecchio, polveroso, noioso» per diventare familiare e innalzarsi ad «altezze vertiginose», e che per lui non è più «un lusso, un bell’arredo, un sottile gioco matematico, qualcosa da contemplare rispettosamente da lontano, come una liturgia», ma una porta verso l’incanto liberatorio delle note. Un pezzo, sublime, che è Il trio in mi bemolle (Trio Kegelstatt, K 498) di Mozart, che lui promette di regalarle ma che per un gioco del caso non verrà mai ricevuto e diventerà motore di un equivoco e di ossessionanti e ossessionati giri di parole intorno a una frase non detta, fino alla gioia dello svelamento finale che è talmente grande che Paul «posa in fretta il vassoio, le corre incontro e la stringe freneticamente tra le braccia coprendola di baci». E poi i due «stretti stretti, cominciano ad ascoltare il Trio in mi bemolle».

La capienza emotiva dell’opera, di cui gira una fortunatissima versione diretta per il palcoscenico dallo stesso Éric Rohmer e filmata nel 1988, non poteva che attrarre la regista del già “impossibile” A Portuguesa (2018), che in un film ancora una volta prodigiosamente fuori dal tempo, dallo spazio e da ogni prassi cinematografica nella smisurata eleganza del suo 4/3 eppure al contempo squisitamente pandemico nella sua unica location/bolla e nella sua troupe ridotta all’osso, ci costruisce intorno una conversazione sul cinema ma soprattutto con il cinema – francese, portoghese, di ieri, di oggi, di domani, dell’utopia. Le basta raccontare le riprese di un film che segue fedelmente il testo originale anche nella lingua (salvo il cambiamento di alcuni nomi), e che viene girato da uno stravagante regista spagnolo, interpretato non certo per caso dal grande Ado Arrieta, in una casa dall’architettura minimale e luminosissima fuori città. La grandezza di Rita Azevedo Gomes sta quindi non in una rielaborazione personale dell’opera, quanto nell’utilizzo che ne fa per costruire un particolare discorso e nel continuo scherzare con le aspettative dello spettatore, ingaggiato in un (doppio)gioco che è una riflessione sul concetto stesso di spettatorialità. Quando vediamo i protagonisti all’inizio non sappiamo cosa succederà e basta un «Adelia, c’est toi» e un «Paul» di fronte alla porta a farci affezionare immediatamente alla dinamica dei due, ma questa viene all’improvviso interrotta da uno «stop» fuori scena che informa della meta-rappresentazione che troveremo per il resto del film. Le scene vengono recitate, stoppate, rifatte, provate, anticipate, lette e rimesse in scena nelle varie stanze e nei punti di fuga concentrici di una fascinosa villetta-set anni ’70 sui toni del bianco e del giallo di cui vediamo principalmente il salotto, ma anche nel giardino. A intervallarle sono le piccole dinamiche della crew minimale, sistemare le cose, gli attori che si rilassano, ripassano o aspettano la prossima ispirazione del regista, che può avvenire la notte mentre legge gli appunti o nei tanti momenti in cui riflette appoggiato a un muro, seduto sotto un albero o in spiaggia a prendere il sole, oppure ancora mentre spia i suoi protagonisti che si danno le battute in privato.
Il confine tra realtà e finzione non è labile, non c’è proprio. Perché se normalmente a chi guarda viene richiesto di imbarcarsi nel viaggio dell’autoconvinzione e di sospendere l’incredulità – a prescindere che l’opera sia «realista» o meno – tendenzialmente per un paio d’ore, qui non solo non viene chiesto ma viene continuamente ribadito di non farlo, e proprio per questo il pubblico implora di credere, di lasciarlo in pace perché si immedesimi, supplicando brandelli di continuità e autoimmergendosi nelle parole e nelle immagini che queste scatenano perché vuole affogare nella storia. Per cui gli basta un secondo per tornare ad amare Paul e Adelia come esseri veri, che pensano, agiscono, si respingono, si sfidano e si riattraggono – animati di vita propria. Allora non fa più differenza. Non fa differenza che le prove siano con copione sotto mano o senza, che si stia girando o solo ripetendo qualche battuta, che si sia in giardino o in casa, che una scena appena girata venga rifatta o provata di nuovo. Non ha più importanza non perché abbiamo accettato di credere, ma perché lo abbiamo scelto, perché abbiamo consacrato la finzione a qualcosa di divino, la rappresentazione a verità indiscutibile. Anche quando giungiamo al finale (di cosa?) e la regista di nuovo ci prende in giro. Paul e Adelia sono seduti sul divano, abbracciati «stretti stretti», finalmente ricongiunti, e un gesto per aria di Paul fa partire il Trio in mi bemolle (diegetico, extradiegetico, chissenefrega) come per magia, perché tanto ormai tutto è possibile. E i due lo ascoltano, ora zitti zitti perché l’azione delle parole è finita, la pièce – dunque il film (nel film) – è giunta al termine ed è il tempo del riposo. È un momento interminabilmente lungo – evidenziato dalla macchina da presa che pur non rinunciando alla sua fissità teatrale avvicina i protagonisti (ma non lo sfondo) spostandoli fisicamente con tutto l’arredamento della stanza verso l’ottica – e che vorremmo infinito, momento risolutorio in cui i due galleggiano tra le note che sono ora la loro unica voce, che non ha più bisogno di definirsi, di definirli, perché i confini della personalità sono più sfumati di quanto non si pensi. E a volte per capirlo e per cogliere veramente l’eufonia dell’amore e la complementarità tra il cervello e il cuore (che questi due amanti qui verso la mezza età rappresentano) basta un abbraccio, come quello dei tanti finali di Rohmer, dal Ginocchio di Claire, al Raggio Verde a L’Amore il Pomeriggio. Abbracci commossi, rilassati, nervosi, sobri, spontanei, rumorosi, quieti, morbidi; così e il cinema di Rohmer, e per questo ringraziamo Rita per aver ripreso il cammino che lui ha abbandonato morendo in pieno inverno, per aver raccolto il suo testimone e averci fatto capire ancora una volta che la vita è meravigliosa nei suoi piccoli dolori e nelle sue piccole gioie, nelle sue piccole cose che solo l’arte rende grandi. Per questo il film non si conclude così, né quello che guardiamo noi spettatori da Berlino, né quello che sta nascendo tra le quattro pareti (o forse solo tre…) del set di un regista perennemente insoddisfatto, perché «bisogna ricominciare tutto», rifare da capo. Perché? Perché sì. Da capo ancora una volta perché l’arte è così, rinnovamento continuo come la riproduzione cellulare, come il rinnovamento di cicli vitali paralleli. Sono le mille possibilità che ci compongono di cui parla Marias, il terreno incerto e sfumato: Paul e Adelia saranno presto altri, in situazioni pressoché identiche o magari completamente diverse a seconda dell’ispirazione di chi li guida, e saremo pronti ad amare anche loro senza smettere di avere a cuore le sorti dei primi due, e dei primi originali del testo teatrale, e potranno essercene mille e continueremo a emozionarci e a palpitare per loro. In una parola, a credere. O trio en mi bemol non è dunque solo un inno al cinema e al concetto di rappresentazione ma è molto di più: nel suo prendere un’opera che celebra l’umano e nella sua capacità di spremerla in ogni modo e di sfruttare ogni occasione per ingannare lo spettatore di fatto celebra il bisogno umano di finzione. Quindi di nuovo, tornando a Marias, il racconto di quel territorio sfumato di infinite possibilità che la vita avrebbe potuto e può essere. Anche magia, appunto. Quella di una musica che continua anche alzando le mani dalla tastiera del pianoforte, quella del disco che parte semplicemente indicandolo, quella del momento in cui la camera distoglie lo sguardo dalla scena e gira su se stessa di 360 gradi. Ci si aspetta di trovare sui 180 il regista che guarda e orchestra tutto, ma questa volta dietro non c’è niente, solo la casa degli incontri, solo la luce che la squarcia. Che forse la finzione sia così potente da poter diventare a volte realtà? Ma in fondo anche se fosse cosa importa? Godiamocela e basta.

Bianca Montanaro

“O trio em mi bemol” (2022)
127 min | Drama | N/A
Regista Rita Azevedo Gomes
Sceneggiatori Rita Azevedo Gomes, Éric Rohmer
Attori principali Ado Arrieta, Olivia Cabeza, Rita Durão
IMDb Rating N/A

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