MISS PEREGRINE – LA CASA DEI RAGAZZI SPECIALI (2016), di Tim Burton

Bisogna partire con due categorizzazioni per Miss Peregrine: è un film appartenente alla moda/tendenza di genere young adult, ed è un film di Tim Burton. “Young adult”, per non lo sapesse, è in teoria il genere letterario e cinematografico dedicato ad un pubblico di ragazzi (dai 14 ai 21 anni), ma è ormai un termine che si usa per definire i prodotti scaturiti dall’accumulo incessante di romanzi e film di genere fantasy o fantascientifico dedicati a questo pubblico nell’epoca corrente: abbastanza piccoli da voler credere nelle magie, abbastanza grandi da voler vedere un minimo di sangue e di orrore. Probabilmente si può dire che gli ultimi 3-4 film e romanzi di Harry Potter sono young adult, così come la saga di Twilight o quelle di The Hunger Games, Maze Runner, Percy Jackson e quant’altro. E purtroppo, come ogni prodotto che diventa di tendenza, il genere young adult, più al cinema che su carta, soffre di un ripetersi sostanzialmente inevitabile degli stessi archetipi, degli stessi modelli, fino a far soffrire lo spettatore di una specie di costante sensazione di déjà-vu. Insomma, il problema del genere non è tanto il suo scopo, che è anzi nobile (gli adolescenti hanno da sempre necessità di un tipo di film d’intrattenimento costruiti a misura per loro e per la loro età, e questa new age della letteratura teen sicuramente ha giovato a creare una piccola grande nicchia di avidi lettori e lettrici), ma il suo manierismo e il suo stile troppo definito, definitivo, quasi dogmatico fino al risucchiare in sé gli stili dei registi che si cimentano con questi personaggi e questi scenari. Un esempio essenziale lo può dare, appunto, la saga di Harry Potter, che cinematograficamente non sarà certo una galleria di capolavori, ma che almeno ha avuto, per i suoi primi tre film, dei registi con qualcosa da dire, da Chris Columbus, che ha usato Hogwarts per continuare una propria ricerca di un immaginario dolcemente infantile, ad Alfonso Cuarón, che ha preso Columbus ribaltandone la palette cromatica e creando uno scenario più cupo e grottesco; dopo di loro, con Mike Newell e David Yates, i film sono diventati tutti piatti e uguali, con la stessa patina e lo stesso piattume fotografico, lo stesso ritmo e gli stessi buchi, la stessa recitazione e lo stesso approccio ai drammi personali dei personaggi. E questi ritmi, questi colori, queste scelte di sceneggiatura hanno poi influenzato e toccato tutto il resto del genere.

Per quanto riguarda invece Tim Burton, è ad un punto davvero critico e difficile della propria carriera. Escluso il comunque discutibile Frankenweenie (2012), sono quasi 10 anni che un film di Burton non viene completamente apprezzato e approvato dalla critica internazionale. Il suo immaginario gotico e grottesco, nato negli anni ’80 e cristallizzato negli anni ’90, con l’arrivo del nuovo secolo e con l’avvento del digitale ha preso una strana piega: rimangono la magia e l’oscurità (e, con esse, un tatto che solo Burton riesce ad avere nei confronti dell’immagine), ma a volte la forma stessa del film, tra scenografie spericolate e sceneggiature semplicemente infelici, si tramuta nella triste auto-parodia. Da questo punto di vista bisogna specificare che, escluso forse solo il remake de Il pianeta delle scimmie, nessun film post-2000 di Tim Burton è completamente insalvabile: anzi, Big Fish (2003) potrebbe essere il suo film più bello, e La sposa cadavere (2005) è tra i suoi lavori più personali e inquietanti. Però, in media, rimane la sensazione che questo Burton non sia il Burton di cui ci siamo innamorati guardando Edward mani di forbice (1990), e già gli abbiamo scritto una triste lettera a cuore aperto dopo aver rivisto, quest’anno a Locarno, uno dei suoi film più memorabili, vero e proprio manifesto della sua visione di cinema, Ed Wood (1994). Due anni fa, con Big Eyes, Burton cercò di riappropriarsi dell’apprezzamento dei fan attraverso un’operazione in teoria molto simile a quella di Ed Wood: un recupero, in chiave minimale e per nulla fantasy, delle proprie origini artistiche attraverso un tributo ad un artista importante per il proprio processo di formazione. Ma il piattume con cui Burton ha raccontato la storia di Margaret Keane ci ha lasciato perplessi e tristi, soprattutto se davvero vogliamo paragonare questo Burton a quello che ha raccontato l’arte del “cinema brutto” di Edward D. Wood Jr. più o meno vent’anni prima — è venuto fuori dunque uno dei suoi film meno riusciti, nonostante una premessa interessantissima. Ogni uscita in sala di un film di Tim Burton per noi finisce per essere un’occasione per riscoprire il nostro amore per il suo cinema precedente attraverso le delusioni del presente; e, spaventati, andiamo al cinema, e in sala cerchiamo di capire cos’ha fatto stavolta.

Tim Burton non è nuovo al genere young adult probabilmente, se intendiamo questo genere come coincidente con la deriva modaiola che ha adesso, perché la sua lettura di Alice nel paese delle meraviglie del 2010 rientrava perfettamente nei canoni stilistici e narrativi del genere, Johnny Depp che balla escluso. E molti hanno accusato quel film di essere una spersonalizzazione del suo stile, o addirittura una commercializzazione di un’estetica non fatta per appartenere ai dogmi del cinema più commerciale, un’estetica fatta per essere di nicchia anche nell’ambiente hollywoodiano, un’estetica che dunque attraverso Lewis Carroll sembrava morire schiacciata da se stessa, scomparire. Miss Peregrine pecca negli stessi uguali e identici ambiti, nel senso che Burton convive con gli aspetti più stereotipati e archetipali del genere ma cerca il più possibile di non soffocare le sue ossessioni personali, facendole vivere, purtroppo, nelle scene più brevi e dimenticabili. I dogmi del genere ci sono tutti: il protagonista adolescente (Jake) non ancora cosciente delle proprie potenzialità magiche, i vari suoi più o meno coetanei che invece sanno dei propri poteri, inclusi il rivale che sopporta poco il protagonista (Enoch) e la cotta (Emma, che vola), la famiglia che non lo capisce e la figura magica di tutto rispetto, che funge come “apertura” tra un mondo e l’altro, ovvero ovviamente la Miss Peregrine di Eva Green – che, pur essendo un personaggio titolare, appare sullo schermo poco più del padre di Jake. Ci sono pure i buchi di sceneggiatura, dagli spiegoni in momenti non necessari ai paradossi temporali invece spiegati troppo frettolosamente (come mai il nonno alla fine è vivo? come ha fatto Jake a tornare così velocemente dal Galles in America? in che giorno è ambientata l’ultima scena?); e la sensazione assurda è anche che questo film avrebbe avuto più senso sia se fosse stato più lungo, con più respiro alla storia e una maggiore possibilità per noi spettatori di entrare visivamente nella mitologia e nell’immaginario creati su carta dal giovane scrittore Ransom Riggs, sia se fosse stato più corto, con colpi di scena svelati prima e un minore approfondimento della sistematica routine dei “bambini speciali” del titolo.

Tuttavia, in questo insieme delirante di difetti di genere, Tim Burton respira e vive in maniera più convincente rispetto all’estetica di Alice o ai quadri di Big Eyes. Come mai? È indubbio che ha poco senso rivalutare come insieme il genere young adult, che rimane quello che è, ma forse potrebbe essere la strada migliore per il Burton odierno, che se flirta con il film per bambini finisce per sguazzare nel kitsch più totale e che se invece si dà al film d’autore finisce per essere impossibile da prendere sul serio. Infatti, attraverso la struttura narrativa poco coesa e i ritmi comici e drammatici poco funzionali del film, il regista riesce a far passare la propria cifra stilistica di maestro dell’oscurità e dell’umorismo grottesco attraverso poche scene di cupezza plastica e di magia vera, in cui ci si ricorda dei bei tempi andati in cui Tim Burton era quello, era quella cupezza e non un momento sporadico. Miss Peregrine è come un insieme postmoderno di momenti burtoniani convincenti in mezzo ad un qualcosa che non funziona: la noia, le battute superficiali, gli eccessi espliciti, ma anche i burattini che si muovono in stop-motion (e si muovono davvero in passo uno, per pochi secondi, prima del ritorno della CGI), i mostri che si cibano di occhi di bambini (scena, quella in cui vengono introdotti, girata con una fluidità e una semplicità che traumatizzerebbero qualsiasi bambino), le storie d’amore leggere tra eccentrici e folli, e pure i poteri dei bambini che a volte sembrano essere poteri cinematografici, poteri legati all’immagine e non alla forza. C’è Enoch che, appunto, fa rivivere i burattini e li fa muovere in stop-motion, ma c’è anche Horace, capace di mostrare i suoi sogni sulle pareti come se fossero pellicole mostrate attraverso la luce di un proiettore. C’è, insomma, tutt’un’atmosfera fatata leggera e sincera che dà l’idea di un nuovo percorso, di una nuova riscoperta di sé e delle proprie potenzialità, pur mischiate ad un cinema che non è burtoniano, un cinema fatto di effetti speciali computerizzati poco credibili, di musiche enfatiche e di fotografia piatta (curata da Delbonnel, peraltro, a cui dobbiamo i colori del Faust (2011) di Sokurov, uno dei film visivamente più sorprendenti degli ultimi anni… com’è possibile?), di trucchetti tamarri e montaggio a ritmo di electropop nei luna park. Non è cinema originale, ma potrebbe essere il meglio che Burton può fare in questa fase della propria carriera – considerando anche che il romanzo da cui il film è tratto ha avuto due seguiti, potrebbe essere una saga di successo. O forse no. O forse Burton è destinato a mutare di film in film, a mutare il proprio percorso e la propria proiezione negli sguardi dei fan più o meno appassionati. Il suo di sguardo, invece, sempre più veloce, volatile e incomprensibile, riesce comunque a trovare un pizzico di poesia anche nel vuoto più totale — l’importante è che ce ne rendiamo conto e che non perdiamo tutte le speranze, forse. Rimane pur sempre uno dei più grandi fabbricatori di sogni (e incubi) del cinema anni ’90 — e forse, forse, un giorno riuscirà a capire meglio come traslarsi nel nuovo millennio.

Nicola Settis