7 Settembre 2015 -

L’ATTESA (2015)
di Piero Messina

Certo, non è da tutti avere la possibilità di presentare il film d’esordio direttamente in Concorso a Venezia. Come non è da tutti, per l’opera prima, avere alle spalle sforzi produttivi del peso di Medusa e Indigo Film. Ma L’Attesa, primo film italiano nella massima competizione lidense, è in effetti difficile da considerare come un esordio. Il regista catanese Piero Messina sbarca in Laguna con la patente di “aiuto di Sorrentino”, avendolo assistito per This Must Be The Place e La Grande Bellezza (non a caso i due lavori più attaccabili, potrebbe far notare qualche maligno), e dal mentore pare in effetti avere ereditato parte dei pregi e tutti i difetti. Il mondo della critica, compresa la redazione di CineLapsus, è diviso da anni in parti più o meno uguali sull’effettivo valore di Paolo Sorrentino, da una parte chi -come il sottoscritto- si perde beato nella sua sublime gestione dell’apparato visivo, dall’altra chi rimane indispettito davanti ad un cinema sempre più ammiccante, vacuo, fine a se stesso ed arrogante nell’autocelebrazione, finendo per odiarlo. In questo senso, i giudizi di merito su un autore dalle due anime così distinte, peculiare nell’alternare una squisita grazia filmica con limiti etici e umani a tratti insostenibili all’interno del medesimo lungometraggio, lasciano il tempo che trovano, finendo inevitabilmente per basarsi su sensazioni e gusti personali. Il suo cinema sensoriale e impressionista può essere amato o odiato in egual misura, ma è senza dubbio figlio di un background che lo ha portato ad essere Autore vero, dotato di uno stile unico ed immediatamente riconoscibile. Caratteristiche che Messina, invece, non ha.

Se questo discorso vale infatti per Sorrentino, regista con sette film all’attivo e piombato nella spocchia solo dopo essersi assicurato di potersela permettere con i suoi primi quattro -sensazionali- titoli, lo stesso non si può dire del trentaquattrenne Piero Messina e del suo stile pedissequamente derivativo, perso in un’estetizzazione asettica che parte dai movimenti di macchina e dai giochi con il fuoco per rivelare una totale ed agghiacciante anaffezione nei confronti della vicenda e dei personaggi: fra l’arredamento pesante della casa, i primi piani silenziosi delle protagoniste e l’inevitabile (quanto prevedibile) disvelamento che giungerà al termine dell’Attesa, sembra in realtà esserci solo lui, il regista, autoproclamatosi sorta di deus ex machina del mondo e deciso, attraverso il proprio lavoro, a mettere in scena se stesso e le proprie capacità tecniche piuttosto che una tematica o un’emozione. Non fraintendiamo, il ragazzo ha sicuramente la stoffa per dipingere fotogrammi, è dotato di un indiscutibile talento visivo e di uno spiccato respiro autoriale, ma vedere un allievo così tanto affine al maestro, per non parlare di un esordiente così privo di umiltà e così lontano dall’essere umano, preoccupa non poco sul futuro di un cinema -non solo italiano- che piomba nel rischio della ieraticità produttiva, ristagnando statico in un pericoloso limbo manierista dal quale limitarsi a tirare fuori nuovi nomi-epigoni da dare in pasto ai concorsi festivalieri. Insomma, iniziano a vedersi i temuti danni del sorrentinismo, non tanto imputabili al regista napoletano, ma piuttosto ad un mondo che ama sedersi su una formula di successo, riproponendola fino a mandarla alla deriva, piuttosto che continuare a cercare nuove strade da percorrere.

Eppure, le premesse per fare un buon film ci sarebbero state tutte. Tratto da Pirandello, bene interpretato da una star del livello di Juliette Binoche, giocato su una sottrazione narrativa che risalta sul barocchismo formale delle inquadrature e del set -una ricca villa settecentesca immersa nelle assolate campagne del catanese-, L’Attesa si rivela invece drammaticamente inerte, una sorta di Deserto dei Tartari (anti)sentimentale, che di Buzzati (e poi di Zurlini) non riesce in alcun modo a conservare la tensione lirica e metaforica. L’incipit del lungometraggio introduce in una dimensione a metà strada fra le tradizioni del sud Italia ed la cristologia, presentando attraverso il rutilante moto della macchina da presa intorno ad un’enorme statua di Cristo una pietosa Madonna-Binoche intenta baciare un piede della statua, come se l’arrivo della Pasqua potesse portare alla resurrezione del figlio recentemente perso. Ma si tratta dell’unica sequenza genuinamente lirica del film, pronto per il resto a degradare verso la sterilità di un’attesa vana, incapace di leggere il potenziale tema del doppio, l’elaborazione del lutto di una madre che non riesce a comunicare l’accaduto alla fidanzata del figlio -interpretata dalla splendida classe ’90 francese Lou de Laâge- che attende vanamente il ritorno dell’amato, la sostituzione di un affetto venuto a mancare. Le due donne si conoscono, si parlano, entrano in sintonia e palesano le difficoltà multigenerazionali, ma il loro aspetto psicologico viene lasciato da parte, considerato inutile, ignorato da un regista troppo impegnato a mettere in scena le proprie capacità tecniche per ricordarsi di comunicare qualcosa.

Non mancano le forzature nella sceneggiatura (risulta onestamente difficile credere all’invito a cena di due aitanti sconosciuti in casa della madre del fidanzato), l’uso quasi criminoso di Waiting for The Miracle di Leonard Cohen in una sequenza di danza che non riesce ad elevarsi dalla vuota ambiguità di un ammiccamento erotico, una brutta sequenza onirica quanto retorica per narrare il sogno pasquale di un ritorno impossibile, né la citazione dei tapis roulant dell’aeroporto che già furono incipit de Le Conseguenze dell’Amore, opera seconda di Sorrentino al quale l’allievo rende un omaggio inutile perché già piuttosto palese. Ma non sono questi i punti sui quali battere, difetti perdonabili in un’opera prima, a differenza della grave e narcisistica arroganza con la quale Messina si è approcciato alla vicenda. L’Attesa mostra un’elaborazione del lutto senza riuscire a metterla in scena, mostra una madre distrutta senza riuscire a penetrarne l’intimità, mostra una fidanzata illusa e delusa senza nemmeno provare a parlare di problematiche giovanili. Certo, rimane una confezione a tratti abbacinante, fra movimenti di macchina, splendenti oggetti di scena, lampadari, stucchi, primissimi piani e le luci colorate di una veglia pasquale. Ma questo non basta a rendere un videoclip cinema, né riesce a coprire i pericolosi limiti etici in un regista che non ha ancora fatto nulla per diventare un Autore, eppure già si autocelebra.

Marco Romagna

“The Wait” (2015)
100 min | Drama | Italy / France
Regista Piero Messina
Sceneggiatori Giacomo Bendotti, Ilaria Macchia, Andrea Paolo Massara, Piero Messina, Luigi Pirandello (play)
Attori principali Juliette Binoche, Giorgio Colangeli, Lou de Laâge, Domenico Diele
IMDb Rating 6.4

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