LAILA IN HAIFA (2020), di Amos Gitai
Laila. Nell’arabo dei palestinesi un nome proprio femminile, nell’ebraico parlato dagli israeliani “notte”. Eppure non è Laila la vera protagonista, e forse non lo è nemmeno quell’unica notte nella quale in tempo reale si svolge l’intera vicenda. Laila solo uno dei tanti, infiniti tasselli di un racconto corale tutto d’interni, in cui la vera star è quella città che quasi non si vede, ma rimane ai margini del campo celandosi dietro ai muri e ai lunotti posteriori, regala di sé solo qualche dettaglio lasciando la sua narrazione a chi la abita e la vive. È Haifa, o Caifa che dir si voglia, l’attrice principale di Laila in Haifa, ultimo lavoro di Amos Gitai presentato in concorso a Venezia77. Quella città aperta e tollerante in cui più o meno da sempre israeliani e palestinesi convivono in maniera non esattamente pacifica ma per lo meno assennata, abituati a trattare e a negoziare sin dall’epoca del mandato britannico e dei sindaci inglese, ebreo e arabo che la governavano in un sostanziale triumvirato. Quella città in cui Amos Gitai è nato e cresciuto, unico o quasi punto d’incontro fra due popoli insensatamente divisi e in perenne tensione, al contempo luogo di coesistenza ed equilibrio da omaggiare e luogo di ambiguità e contraddizioni su cui riflettere in profondità. Non è certo un caso, in tal senso, che Laila in Haifa si apra con uno scontro rissoso destinato a ribaltarsi all’interno dello stesso ciak in accoglienza e incontro. Un pestaggio che, in un vertiginoso pianosequenza che subito richiama Ana Arabia, dai pugni subiti condurrà l’uomo sino alla scena di sesso con la donna che lo ha aiutato, all’interno di quella discoteca/galleria d’arte gestita da Laila, il Fattoush, in cui invece non esistono eccezioni né limiti, ma chiunque viene accettato in ogni sua diversità. Un luogo di incontro che non è davvero di Laila ma realmente esiste nella città, in cui convivere, parlarsi, (non) riconoscersi, tradirsi, trovarsi, forse amarsi. Un luogo in cui israeliani e palestinesi si mescolano e si confrontano, discutono fra ebraico, arabo e quando necessità lo impone inglese, e non solo non si uccidono, ma cercano collaborazioni con cui accrescersi reciprocamente. Un luogo di piste da ballo e arte contemporanea, parità sociale e privé, in cui dimostrare ogni giorno che la convivenza è possibile sublimando la pace fra popoli, in cui etero e omosessuali si baciano liberi sul parquet, in cui si discute di apporto dell’arte alla politica, in cui si può essere una drag queen con la barba da boscaiolo come un vorticoso danzatore, in cui ortodossi e laici delle due religioni entrano in contatto e cercano di capirsi.
Un luogo che volutamente Gitai, da architetto che perfettamente conosce la spazialità, non mostra mai per intero, preferendo lasciare anche il set in qualche modo sfumato, labirintico, depistante, ondivago come le (non) vicende che girano intorno al nutrito nugolo di protagonisti. Cinque donne, alcune delle quali in fuga dalla violenza fisica o psicologica di qualche uomo, e uomini di tutte le età, appartenenze ed estrazioni sociali. Dal rapper economo al miliardario israeliano da tentare (invano) di ricattare per finanziare la resistenza palestinese, dall’ombroso fotografo del quale è necessario spostare una foto troppo violenta alla coppia che nel locale si incontra dopo essersi conosciuta su Tinder (semplicemente magnifica la scena della danza in cui si corteggiano), dai due giovani omosessuali che vivono teneramente il loro amore alla collega ammanigliata che, su lauto compenso, sembra poter portare Laila e le sue mostre negli Stati Uniti. Gitai li mette in scena nel ventre del Fattoush in una notte cupa, corali nei pressoché costanti dialoghi (e, a disvelare ancora più apertamente l’apparato teatrale, un paio di monologhi) eppure soli nei propri egoismi, a incontrarsi e a ritrovarsi a parlare di arte, politica, economia, sentimenti, repressione, resistenza. Ci si offende e si chiarisce, ci si ama e ripetutamente ci si tradisce, mentre qualcuno piange, qualcuno ride, qualcuno è minacciato e qualcuno gode. I discorsi si moltiplicano concentrici, in una progressione esponenziale di argomenti e di punti di vista che, come la luce in un prisma, illuminano ogni possibile sfaccettatura del Medio Oriente e delle sue infinite problematiche. Eppure questa volta, a differenza di tante altre volte nella carriera di Gitai, non c’è tempo per scendere davvero in profondità, non si vuole giungere a nulla che non fosse già stato detto. La coralità dei personaggi e dei loro argomenti di conversazione non permette di approfondire i singoli argomenti messi sul piatto, ed è per questo che Laila in Haifa sarebbe facilmente classificabile come un film minore nel percorso del cineasta israeliano, molto meno quadrato e centrato rispetto a un Rabin o al già citato Ana Arabia, e probabilmente anche meno ambizioso degli ultimi A Tramway to Jerusalem e West of the Jordan River. Ma non è quello contenutistico, il punto di Amos Gitai. Laila in Haifa è un film che cerca e trova il suo fascino proprio nella forma irregolare e sfumata, nell’oscurità, nelle ambiguità, nella medias res dei dialoghi e nella loro interruzione, nell’andare ovunque seguendo ondivago i personaggi e i loro incontri senza nemmeno provare a cercare un punto di approdo. Conta l’atmosfera, contano le sfaccettature, conta il faticare persino a capire chi sia israeliano e chi sia palestinese, con quelle lingue così diverse e divisive eppure così simili all’orecchio occidentale che non le parla. Del resto è proprio questo il gioco del film: il (non) riconoscersi, l’essere diversi eppure identici, l’imparare ad accettarsi, l’esperire e il provare a conoscere, quando necessario anche carnalmente. In uno spaccato lungo una notte di traiettorie incerte e giocoforza abbozzate, come una sbirciata da uno spioncino, come un origliare gli incontri e gli scontri nel continuo divergere e convergere di volti e di pensieri, di ideali e di trasgressioni, di analogie e di differenze. Fra uomini e donne, israeliani e palestinesi, etero e omosessuali: individui liberi di essere se stessi per ribadire ancora una volta quelle che sono sempre state le istanze di Amos Gitai, e tracciare un affresco umano e sociale di convivenza come ritratto su schermo di quell’unica città in Israele in cui sembra davvero essere possibile. E questo no, non è affatto cosa da film minore. È, anzi, purissimo cinema. Di quello stratificato, magnetico, avvolgente, da cui semplicemente lasciarsi sedurre e cullare. Quello che non basta mai.
Marco Romagna