20 Novembre 2016 -

LA NAVE DELLE DONNE MALEDETTE (1953)
di Raffaello Matarazzo

Forse nessuno quanto Raffaello Matarazzo, nel cinema non solo italiano, ha avuto la capacità di plasmare le forme del melodramma in un flusso emozionale continuo e ancestrale, sempre sospeso fra il delitto e il castigo, fra la colpa e l’innocenza, fra la famiglia e l’onore. Dalla creazione della coppia cinematografica Amedeo Nazzari-Yvonne Sanson, che da Catene (1950) proseguirà per anni di eccezionale prolificità, alla triste Eleonora Brown interprete dell’ultimo film del regista Amore mio (1964), i drammi di Matarazzo sono storie d’amore, di sofferenza, di egoismo, di punizioni, di affetto e di perdono, piccole tragedie d’eroismo familiare e quotidiano nei quali si incastona, rappresentata con una straordinaria lucidità, l’Italia di quegli anni. Un’Italia orgogliosamente paesana, tradizionale, religiosa: in una parola, genuinamente popolare; proprio come il cinema di Raffaello Matarazzo, milioni di spettatori entusiasti contro un oltranzismo critico, caduto con troppi anni di ritardo e unito alle allora implacabili forbici censorie, proteso alla stroncatura ad ogni costo. Un oltranzismo dovuto probabilmente più che altro alla volontà “politica” di rinnovamento con il neorealismo, scelto come unica via di cinema da sostenere affossando invece ciò che era popolare e quindi visto, a torto, come un retaggio del fascismo. Una presa di posizione che oggi risulta semplicemente folle, di fronte alla serie di capolavori sfornata dal regista romano, eppure capace di far considerare per troppi anni anche dopo la sua morte quello che è stato uno dei maggiori registi della storia del cinema italiano, solo perché popolare, alla stregua di un “regista per casalinghe”, un antesignano della soap opera, una sorta di artigiano del cinema dall’animo provincialotto, e solo il passare del tempo e la conclamata importanza storica delle sue opere hanno saputo restituire a questo continuo e perfetto affresco sociale destinato a proseguire negli anni in forme diverse fra le mani dei vari Pietro Germi, Mario Monicelli, Marco Ferreri e in un certo senso anche Matteo Garrone, la considerazione dovuta.

I melò di Raffaello Matarazzo sono gli anni Quaranta e soprattutto, dopo l’ottenimento del successo e della propria cifra stilistica, i Cinquanta, fra una mentalità troppo rigida dalla quale era sempre più necessario scrollarsi come ostacolo contro la sincerità dei teneri amanti, le false accuse che minano l’onore, la centralità del nucleo familiare, le (in)fedeltà, i sensi di colpa, l’umanità più viva, e spesso i tribunali. Anche quando, come nel caso di quello che è probabilmente il suo capolavoro, La nave delle donne maledette (1953), l’ambientazione è la Spagna del Settecento, e al posto del destino, a essere avversa ai protagonisti c’è una sorta di Lady Machbeth perfida e anaffettiva, manipolatrice e cinica, che per salvarsi da un’accusa – vera – di infanticidio, o meglio di aver gettato il cadavere del proprio neonato in un pozzo, non esita a costringere la cugina a confessare una colpa non commessa, vederla condannare a dieci anni di lavori forzati e, una volta repressi i (pochi) sensi di colpa trovandola fra il carico di detenute trasportato dalla nave sulla quale è serenamente in viaggio di nozze, sedurre il comandante pur di farla ancora frustare e punire. È la donna accecata dal potere, contrapposta alla dolcezza ingenua di chi la subisce, e ancora alla forza dirompente delle detenute, le “donne maledette”, costantemente sospese fra povertà, riscatto e lussuria. La lontananza temporale e geografica dall’Italia provinciale degli anni Cinquanta diventa un modo per parlare con libertà ancora maggiore delle sue corruzioni, della sua sete di potere e delle sue derive, unita all’uso audace di un colore, pressoché avvenieristico nella produzione cinematografica italiana popolare del tempo, soffuso nelle viscere della nave quanto saturo nei salotti aristocratici. Ma La nave delle donne maledette era così apertamente metafora di un’Italia destinata alla dannazione del mortifero baccanale finale che la censura del tempo non ne perdonò il coraggio, tagliandone proprio a causa di questa libertà parte del minutaggio e privandolo del suo colore così fondamentale nel dare quel senso di fisicità anche erotica di cui le “donne maledette” hanno bisogno per prendere il controllo della nave destinata alla deriva. Fino al (discutibile) restauro del 2009, tristemente la miglior copia disponibile del film nonostante la sua qualità tutt’altro che buona, proiettato al 34mo Torino Film Festival nell’ambito della retrospettiva parziale dedicata alle opere più rare del regista, la versione italiana del film era infatti in bianco e nero e priva di intere sequenze, che ancora oggi sono disponibili solo doppiate in francese, provenienti dalle copie di conservazione transalpine e belghe sulle quali si è effettuata quella che, più ancora che un restauro, è stata la vera e propria ricostruzione di un film straordinario, per troppo tempo rimasto mutilato e ancora oggi troppo poco conosciuto. Copie estere probabilmente prive del finale italiano – o, se vogliamo, del post-finale, che nel cinema contemporaneo verrebbe tagliato ma che è così indicativo dell’Italia del tempo che vuole la conferma ufficiale e l’onore salvo –, con il ritorno in tribunale e la piena assoluzione per l’innocente, l’unica sequenza rimasta in bianco e nero perché evidentemente priva di stampe a colori.

Diviso in due parti, La nave delle donne maledette è un perfetto delitto e castigo, o forse sarebbe meglio dire complotto e sofferenza, una spirale di segreti di famiglia inconfessabili, sensi di colpa, apparenze da salvare, paura, coercizione, ulteriore sadico cinismo, ribellione e dannazione messi al muro dall’inaspettato quanto umanissimo perdono. All’iniziale rivelazione della colpa di Isabella Silveris – genialmente proposta come un brindisi con l’acqua e uno svenimento degno del più consumato dei thriller – segue il complotto di famiglia per accusarne la cugina Consuelo, in modo da salvare il ricco matrimonio alle porte, fondamentale per le casse paterne, della rampolla colpevole non tanto dell’infanticidio, ma di “aver avuto un amante”. Messo in campo il peggior avvocato sulla piazza, Paolo da Silva, Consuelo subirà la più esemplare delle condanne, ma l’avvocato, ed ecco l’elemento melodrammatico intorno al quale crescerà tutta la narrazione, si innamorerà all’istante della cliente, al punto da dedicarle la propria vita, e al punto da imbarcarsi come clandestino sulla nave che sta deportando verso le colonie le “donne maledette”. Consuelo, dalle criminali ‘vere’, verrà dapprima bullizzata, ma poi le donne ne capiranno la natura di innocente rea confessa ed eternamente perseguitata fino a prenderne le parti, e a vendicarla aiutate dai ripetuti ammutinamenti dei marinai, fino a quando a tentare di fermarle non sarà il suo ultimo estremo atto di pietà perdonando la cugina potente che tanto l’aveva ripetutamente umiliata. Ma ormai è troppo tardi: il demone ha già infestato la nave, la ragione è ripassata al torto, e alle audaci carrellate sulle file di seni, sparatorie che diventano baci, nudità e ubriachezza anche nella tempesta, la cambusa saccheggiata e l’abbandonarsi al desiderio più lubrico, non potranno che seguire le fiamme sulla nave rimasta senza controllo, l’esplosione e l’affondamento – come a passare dal fuoco della lussuria a quello della morte senza nemmeno rendersene conto. Ma è una morte serena, felice, quasi godereccia, che non aumenta le troppe sofferenze già patite nella vita, non infierisce su chi ha peccato costretto dalle circostanze e ora ha permesso di salvare un’anima in pena. La nave delle donne maledette è la maledizione che cade su tutta la nave, con quelle secchiate d’acqua gelida lanciate incessantemente sulle teste delle prigioniere dai marinai che verranno punite dalla stessa ebbrezza di chi le ha compiute e di chi, non senza colpe, le ha subite, mentre Consuelo e Paolo si allontaneranno appena in tempo su una scialuppa. Matarazzo, pur condannandone le derive, si schiera apertamente dalla parte dei più deboli e soprattutto delle più deboli, soffre con loro, quasi combatte fra le loro schiere nell’ammutinamento e nel rovesciamento dei ruoli sulla nave alla ricerca di un barlume di giustizia contro il muro delle menzogne, dell’obbedienza forzata e della sfrontatezza, anche se poi il destino, mai così agrodolce, farà ancora il suo corso. Sulla nave, l’ingiustizia più estrema diventa la giustizia del fato dove quella umana ha fallito: muoiono i ladri, gli assassini e gli aguzzini dell’equipaggio, muoiono le assassine e le prostitute deportate, muore di pentimento la perfida manipolatrice, mentre tornano a casa i giusti con le loro schiene ormai devastate dai colpi di frusta, ma con la testa mai così alta per la dignità recuperata. Con i colpevoli che trovano la morte e gli innocenti che trovano la salvezza, il destino rimette a posto quello che la vanità umana, la sete di potere e l’egoismo avevano ribaltato, e il resto lo faranno in aula i sensi di colpa di un padre e di uno zio che si è ritrovato a perdere tutto: la figlia, l’onore, il senso di giustizia, e che ora cerca di recuperare almeno un briciolo di quella che sarebbe dovuta essere la sua umanità, scialacquata per mero interesse scegliendo un capro espiatorio la cui sola colpa era quella di non sapersi difendere dall’ipocrisia. Mentre il pubblico soffre, ride, piange, digrigna i denti, stringe i pugni, sospira e forse si innamora, immerso nell’avventura e nelle emozioni caleidoscopiche e irrefrenabili che solo la più grande tradizione del melodramma sa regalare nei suoi capolavori più luminosi. Quelli scritti e diretti da Raffaello Matarazzo, regista popolare.

Marco Romagna

“The Ship of Condemned Women” (1953)
101 min | Adventure, Drama | Italy
Regista Raffaello Matarazzo
Sceneggiatori Aldo De Benedetti (screenplay), Léon Gózlan (novel)
Attori principali Kerima, May Britt, Ettore Manni, Tania Weber
IMDb Rating 7.6

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