16 Febbraio 2018 -

INFINITE FOOTBALL (2018)
di Corneliu Porumboiu

Infinite football non è un film sul calcio. Infinite football è un’utopia, è un sogno, è l’allegoria di una società diversa, più equa, più giusta, con responsabilità più definite, con meno fatica da fare, con meno sofferenze e con meno violenza. È già la seconda volta, del resto, che Corneliu Porumboiu torna al calcio, ardore primigenio e straordinaria metafora di vita e della società, per parlare di tutt’altro, dopo che già quattro anni fa in The second game, riguardando insieme al padre al tempo arbitro della partita la VHS del derby innevato fra Dinamo e Steaua Bucarest del 1988, era partito dai fili d’erba del campo imbiancato, gelido e fangoso per ricalcare la Storia di un paese e l’avvicinamento/avvicendamento di due generazioni nel ricordo e in una passione comune. Pur mostrando solo una partita di calcio, The second game non era in alcun modo un film sul calcio, e ancor meno si potrebbe definire un film sul calcio Infinite football, secondo documentario di Porumboiu che ne espande la poetica in mezzo ai suoi quattro (fra poco cinque, con Gomera attualmente in fase di preproduzione e previsto per il 2019) film di finzione, e seconda occasione per ragionare sulla Romania e sul mondo in generale partendo da un campo innevato e da un gioco le cui regole, per l’amico di una vita del regista Laurentiu Ginghina, sono sbagliate e quindi da modificare.
È una viva ossessione, quella di Ginghina, è un consapevole porsi contro le federazioni nazionali e contro una FIFA che mai accetterà i suoi nuovi regolamenti, è la volontà, se non proprio di modificare le regole di uno sport ormai troppo radicato per cambiare, di crearne uno nuovo, migliore, più equo, più solidale, che abbia al centro la palla e la sua velocità, che la faccia correre finalmente libera, perché senza la palla, unica vera star del calcio, i campioni non sarebbero altro che volti «per lo spot di uno shampoo», uomini con tutto da dimostrare. Il calcio secondo Ginghina è una continua mutazione, è un continuo perfezionamento nelle versioni del regolamento che quasi quotidianamente si susseguono, è un miglioramento costante, teso al calcio 2.0, 2.1, 2.chissà, e poi 3.0, 10.0, 100, se necessario 1000, anche a costo di sbagliare e di cambiare idea, anche a costo di esaltarsi per la “genialità” di un dettaglio che fa parte da sempre di ogni allenamento, anche a costo di prendere a prestito regole dagli altri sport, salvo magari rendersi conto che quell’ultima norma inserita per risolvere il problema del fuorigioco, la sostanziale impossibilità di passare la palla in avanti, è già il principio base del rugby, è un qualcosa che già esiste, e che già fa un altro sport, incompatibile con il calcio infinito del protagonista. Quello proposto da Laurentiu Ginghina, dal campo ottagonale e senza più angoli alle suddivisioni dei giocatori in sottogruppi non autorizzati a superare la linea di metà campo, o addirittura i 25 metri di riferimento, è un calcio mutevole, più organizzato in zone e molto meno di fiato e di corsa, nel quale a volte è magari difficile trovare un senso ma che si può giocare anche in età più avanzata, e soprattutto è uno sport in costante via di definizione, provvisorio e potenzialmente infinito nelle norme da cambiare giorno dopo giorno, sempre alla ricerca del giusto punto di equilibrio, del regolamento perfetto, di quell’utopia sportiva che nient’altro è che un’utopia sociale, nata dalle ingiustizie subite e dal dolore patito da Ginghina in occasione del suo doppio infortunio giovanile, trauma e nuovo punto di partenza per la rivoluzione di uno sport e dell’educazione che porta in dote.

Era infatti poco più che un ragazzo Laurentiu Ginghina ai tempi delle vacanze estive dell’86, quando il campetto abituale del suo liceo era stato chiuso e si trovava con gli amici a giocare in un altro campo di Vaslui, fra le città più povere della Romania ai tempi di Ceaușescu così come lo è oggi ai tempi dell’Euro. Era uno di quei campi più piccoli e improvvisati, senza nemmeno i falli laterali, nei quali è lecito, fra amici, giocare di muro, nei quali è perfettamente normale che qualcuno tenga una palla vicino al bordo del campo ed è altrettanto normale che gli avversari, magari in gran numero, si presentino a pressarlo affondando i loro tackle. A Laurentiu Ginghina, quel giorno, arrivò un calcio diretto in uno stinco, un calcio che gli ruppe il perone al punto da farlo calcificare male, e che gli indebolì la tibia al punto da farla rompere da sola, per un semplice sforzo, circa un anno e mezzo dopo, la notte del 31 dicembre 1987, quando Laurentiu già zoppicante rimase ultimo a uscire dalla fabbrica nella quale lavorava, abbandonato dai colleghi e dagli autobus, costretto a tornare a casa a piedi trascinando per oltre sei chilometri la gamba rotta nella neve. Nasce da qui la sua volontà di cambiare il calcio, nasce da qui la sua volontà di trovare una variante dello sport che sia più equa, meno fallosa, meno violenta, meno dolorosa, e nasce da qui la sua visione del football come utopia filosofica, politica e poetica, nella quale crescere dandosi sempre nuove regole, sempre meno inique, sempre più umane.
Nel frattempo sono passati trent’anni da quelle sue due rotture, la Romania è passata dalla dittatura alla democrazia e dal Patto di Varsavia all’Unione Europea, mentre Laurentiu Ginghina è passato dagli studi pagati lavorando in fabbrica al posto, tranquillo quanto noioso e poco stimolante, di burocrate in un qualche ufficio. Nel settembre del 2001 Laurentiu avrebbe potuto fare il salto, il vero e proprio cambio di vita, con un lavoro in Nevada per il quale mancava solo il permesso di lavoro definitivo, ma il giorno 11 del mese, proprio pochi giorni prima del timbro sul visto, i Boeing si sono schiantati sulle Torri Gemelle, gli Stati Uniti sono stati colpiti e hanno cambiato le politiche di immigrazione, e le porte per il protagonista si sono definitivamente chiuse, spingendolo in un certo senso ancor più verso la sua ossessione, verso la sua utopia sportiva. Laurentiu Ginghina si paragona a Clark Kent e a Peter Parker, rispettivamente Superman e Spiderman, costretti a un lavoro poco interessante per coprire e dissimulare il loro eroismo: allo stesso modo, per lo straordinario Ginghina, il suo lavoro nient’altro è la copertura dalla quale porsi come l’eroe che rinnoverà il calcio, e forse con lui tutto quello di sbagliato e ignorante che sta intorno al campo.

Nei due lavori del “dittico calcistico” di Porumboiu, non certo a caso presentati entrambi, fra il 2014 e oggi, nella sezione Forum della Berlinale, è quasi opposto l’approccio visivo e linguistico – nemmeno un fotogramma girato per The second game, nel quale le voci del regista e del padre erano semplicemente montate sulle immagini restituite dal nastro di quella vecchia videocassetta, e invece ben due macchine da presa costantemente accese qui, nei ripetuti incontri fra il regista spesso in campo e il suo vecchio amico Laurentiu Ginghina che vuole cambiare le regole del football – ma è esattamente la stessa la volontà di utilizzare il calcio come allegoria poetica e politica dell’umanità e della società in cui, volenti o nolenti, si deve vivere. Tutto converge verso il calcio, in Infinite football, e tutto diverge, spostandosi sui frammenti di vita, sulle emozioni, sulle utopie politiche e sociali, sulla necessità di una nuova educazione e di (sempre) nuove regole, con le quali formarci come individui. Deve essere la palla ciò che viene lasciato libero di correre, di scorrazzare per ogni zona, mentre gli uomini che la calciano hanno bisogno di uno spazio diverso nel quale potersi muovere meno e in maniera più efficace, meno ansimante, meno violenta.
Il “nuovo” calcio di Laurentiu Ginghina, nel suo suddividere compiti e zone, nel suo spezzettare la squadra in sottogruppi, nel suo modificare il campo, nient’altro è che la volontà di alzarsi dalla polvere di una città povera, castrante, bloccata nei suoi egoismi diffusi, nella sua frastornata Storia e nei suoi pessimi maestri. È una lucida follia che emerge nello scetticismo, la sua, che Porumboiu filma con tutte le sue incongruenze e i suoi tempi morti, con tutto il suo stare dalla parte di Laurentiu e con tutta la sua profonda amicizia. Serve una nuova παιδεία, una nuova cultura, una nuova istruzione, una nuova filosofia che non sia solo di gioco, ma da applicare alla vita di tutti i giorni, alla formazione di ognuno di noi. Corneliu Porumboiu, che forse dopo i suoi A est di BucarestPolice AdjectiveWhen evening falls on Bucharest or metabolismThe second gameComoara-The treasure non sarebbe affatto folle considerare il più straordinario e ineludibile fra gli autori di quel piccolo miracolo che, fra Cristi Puiu, Radu Jude, Cristian Mungiu e Calin Peter Netzer, si costituisce nella contemporaneità cinematografica rumena, sta sempre in scena o subito oltre il bordo dell’inquadratura, presente, vicino, profondamente umano. Ascolta il suo vecchio amico, si interessa alle sue idee, fa domande, ride e fa ridere di gusto, si intenerisce quando nel suo ufficio entrano ultranovantenni ancora in piedi nonostante tutti gli stravolgimenti che reclamano pezzi di terra persi ormai da decenni, e nel frattempo cerca e trova i significati nei significanti calcistici, rendendo l’Infinite football di Laurentiu Ginghina una vera e propria allegoria del mondo e dell’uomo, al contempo politica e profondamente poetica, filosofica e fortemente ancorata a una passione vera, bruciante, infinita come solo il calcio può essere. Quello sport nel quale non è detto che vinca il più forte, quello sport fatto non solo di organizzazione e di tattica, ma anche di imprese e di sudore, di dribbling e di corsa, di brividi di speranza e di paura su ogni calcio d’angolo, su ogni tiro da lontano, su ogni calcio di rigore. E anche quello sport di falli, quello sport che rimarrà così com’è, che Laurentiu Ginghina riesca o meno nella sua impresa di trovarne una variante definitiva e di farla accettare. Lo sanno perfettamente entrambi, sia Ginghina sia Porumboiu, che il calcio non cambierà, eppure è proprio la provvisorietà il vero punto di Infinite football, il continuo ragionare sulla propria ossessione, il continuo tornare sugli stessi punti, il continuo bisogno di perfezionare e perfezionarsi come educazione, come etica, come bisogno ancestrale e missione di vita. O forse, come suggerito dall’amletico finale, come astrazione dei corpi, come nuova animazione dal nostro immobilismo personale e politico. A partire dal saper ritornare sui propri passi, da quegli esami di coscienza che dovremmo fare tutti più spesso, molto più spesso.

Marco Romagna

“Infinite Football” (2018)
70 min | Documentary | Romania
Regista Corneliu Porumboiu
Sceneggiatori N/A
Attori principali Laurentiu Ginghina, Corneliu Porumboiu
IMDb Rating 7.1

Articoli correlati

I DO NOT CARE IF WE GO DOWN IN HISTORY AS BARBARIANS (2018), di Radu Jude di Marco Romagna
UPPERCASE PRINT (2020), di Radu Jude di Marco Romagna
YOUNG SOLITUDE (2018), di Claire Simon di Erik Negro
THE MOST BEAUTIFUL COUNTRY (2018), di Želimir Žilnik di Claudio Casazza
VICTORY DAY (2018), di Sergej Loznitsa di Erik Negro
MONROVIA. INDIANA (2018), di Frederick Wiseman di Marco Romagna