IL BUCO (2021), di Michelangelo Frammartino

Il cinema del silenzio di Michelangelo Frammartino è un cinema in cui le parole NON sono importanti, per parafrasare un altro – sicuramente più celebre – cineasta italiano uscito nelle sale in questi stessi giorni con il suo nuovo lungometraggio. Il buco si presenta come un film vagamente herzoghiano e sembra un ossimoro – abituati come siamo ai voice over del regista tedesco – parlare di un’opera sostanzialmente priva di parlato (o quasi) e definirla tale. Ma sono i temi – ben più che le ambientazioni – ciò che permette di accostare quest’ultima fatica di Michelangelo Frammartino, uscita a oltre dieci anni di distanza da Le quattro volte, a uno dei maestri del cinema naturalistico-paesaggistico (se così si possono definire e incasellare Herzog e il suo cinema). A emergere, in particolare, è il tema della Natura e del suo rapporto con l’uomo, della sua bellezza folgorante eppure costantemente minacciosa. Ma oltre ai temi, c’è altresì quella tensione antropologica (anch’essa vagamente herzoghiana) che qui si riflette nel silenzioso e mai troppo distaccato sguardo sulle popolazioni della Calabria rurale. Una tensione antropologica che ne Il dono e Le quattro volte era sguardo antropologico, e che ne Il buco viene lasciata decantare in una linea narrativa secondaria.

Siamo nel 1961, nel Pollino, il Parco nazionale che si estende tra il nord della Calabria e il sud-ovest della Basilicata. Una spedizione del Gruppo Speleologico Piemontese, la prima a spingersi così a sud dello stivale, si addentra in una grotta inesplorata, che si scoprirà essere la terza più profonda al mondo tra quelle scoperte fino a quel momento, con i suoi oltre 680 metri di profondità. Siamo dunque di fronte a un’opera dichiaratamente fiction (ben più che ne Le quattro volte), ma dai tratti e dallo stile che in molti punti richiamano un approccio pseudo-documentaristico (come nei due precedenti lungometraggi di Frammartino). E infatti Il buco potrebbe quasi apparire come una docu-fiction, se non fosse un termine quasi insultante – e sicuramente sminuente – da utilizzare per un’opera di tale fascino estetico e di tale rigore formale. La fotografia di Renato Berta, innanzitutto, è semplicemente straordinaria, è magnetica e affascinante, per un film che va rigorosamente gustato in sala, dove è approdato dopo essere stato presentato in concorso, aggiudicandosi il Premio Speciale della Giuria, alla Mostra del cinema di Venezia. Una fotografia prevalentemente paesaggistica, di campi lunghi e lunghissimi che richiamano quasi gli stilemi del western, con inquadrature dall’alto di accampamenti eretti in mezzo a una natura che si mostra colonizzata dall’uomo, per il resto, solo per la presenza degli allevamenti d’alpeggio. La macchina da presa sembra piazzata sempre nel miglior punto possibile e la luce sembra sempre (o quasi sempre) la miglior luce che ci si possa aspettare per quella determinata inquadratura. Una luce sempre (o quasi sempre) naturale o diegeticamente artificiale, come quelle dei caschetti degli speleologi che si avventurano per la prima volta nelle profondità dell’Abisso di Bifurto. Luci che turbinano vorticosamente nelle viscere della terra, ricordando quel faro che all’inizio del film, in una straordinaria sequenza in notturna, accoglie gli speleologi al loro arrivo in treno alla stazione ferroviaria di una remota località calabrese affacciata sulla costa ionica. O le luci di una cittadina (quella in cui i membri della spedizione si fermano a dormire il primo giorno, prima di avventurarsi nel Pollino) che accoglie su di sé la notte in un contesto di quiete che mai sembra seguire o presagire la tempesta, tanto è lenta la vita di quelle località remote e quasi dimenticate dalla frenetica civiltà urbana. Un contrasto, quello tra città e campagna, che emerge dal confronto – verticale e non solo – che Frammartino compie tra la costruzione a Milano del grattacielo Pirelli, inaugurato proprio in quegli anni, e la discesa nell’Abisso di Bifurto degli speleologi. Nell’Italia del boom economico l’attenzione della popolazione è tutta focalizzata sull’edificio milanese, inclusa quella dei calabresi che si riuniscono in piazza attorno a un televisore per guardare un servizio giornalistico che esalta il presunto splendore avveniristico del grattacielo meneghino. Il nord e il sud, il cielo e la terra. Ma l’accostamento tra Pirellone e Abisso di Bifurto è anche, banalmente, la base della metafora di una società interessata a guardare in alto, e che si disinteressa di osservare ciò che sta in profondità e nell’interiorità delle cose – inutile rimarcare il fatto che la notizia dell’esplorazione della grotta ebbe un’eco infinitamente inferiore rispetto a quella della costruzione del palazzo che ospita la sede della Regione Lombardia. 

I campi lunghissimi e i campi lunghi si alternano ad alcuni totali di straordinaria suggestione visiva che il regista utilizza – tutti insieme – per vere e proprie composizioni artistiche che sfruttano appieno la profondità di campo. Ci sono almeno due momenti in cui l’estetica di Frammartino raggiunge picchi assolutamente memorabili, due long shot che rappresentano l’apice della pinacoteca allestita dal cineasta milanese: quello in cui il pastore, ormai defunto, viene portato via dal suo letto e fuori dalla sua casa; ma soprattutto quello, immediatamente successivo, che mostra la slitta che accoglie la salma dell’uomo avventurarsi su un pendio verso un orizzonte vagamente nebbioso e annuvolato. In primo piano, sulla sinistra dell’inquadratura, si staglia immobile il tronco di un albero ad alto fusto, simbolo di una natura indifferente alle effimere vicende umane, rappresentate appunto dal corpo del vecchio che si allontana in campo lungo. Un long shot e un quadro fisso come ce ne sono moltissimi all’interno del film, sempre in oggettiva e mai in soggettiva, per mantenere un certo distacco da un contesto che pure è chiaramente e profondamente immersivo. La macchina da presa è generalmente statica e si muove soltanto per mezzo di lente panoramiche, che svelano il paesaggio, i movimenti dell’uomo al suo interno, o gli spostamenti dell’uomo all’interno della grotta. E a loro volta le riprese in campo lungo sono intervallate dai (pochi, in realtà) momenti in cui il regista ricorre al primo piano (e ancor più raramente al dettaglio). Cosa che fa quasi esclusivamente nelle scene in cui la macchina da presa indugia sul volto pensoso del pastore, accostando così concettualmente visi e paesaggi, e dicendoci che quel volto pieno di rughe, che ha il fascino e i segni tangibili del vissuto, è esso stesso paesaggio umano. Uno sguardo assente, ma pregno di dignità, quello dell’anziano, immerso nella sua quotidiana e silenziosa solitudine, rotta soltanto dai versi gutturali che egli stesso emette per richiamare gli animali al pascolo. Il silenzio, ancora una volta, per un cinema che punta all’universalità. Perché le parole, quando le immagini – e il cinema – sono così intense e sublimi, non sono per nulla importanti.

Vincenzo Chieppa