8 Agosto 2015 -

HO VENT’ANNI (1965)
di Marlen Khutsiev

«Ogni movimento rivoluzionario è romantico, per definizione.»
cit. Antonio Gramsci

Il festival del film Locarno 2015 non è solo luogo di grandi scoperte nel cinema di oggi, ma anche di grandi riscoperte del cinema del passato, e quella più clamorosa pare essere Marlen Khutsiev. L’autore novantenne georgiano, premiato col Pardo alla carriera, è un regista da riscoprire, e le proiezioni della sua quasi intera filmografia durante il festival costituiscono sempre momenti di clamore. Il suo film più noto è probabilmente Ho vent’anni (1965), uscito in patria col titolo Zastava Ilicha, un film di tre ore abbondanti in un bianco e nero sfacciatamente leninista che mischia con grazia un cinema purissimo (ma non tradizionalista) con il cinema di propaganda e i filmati di repertorio. Dopo Infinitas (1992), Khutsiev ha preso una pausa dalla regia ma ha promesso di tornare l’anno prossimo con un film su Tolstoj e Čechov dal titolo Nevechernyaya: è stato possibile vederne 40 minuti ad una conversazione con l’autore in PalaVideo e le sue prepotenti immagini riescono nell’arduo compito di unire la forza del cinema muto di Dovženko con l’espressività pittorica di Velásquez.

La trama parte da una guerra, il secondo conflitto mondiale, che non viene mai mostrata, un passato temuto e necessario per il proseguire di un conflitto altrettanto drammatico: la lotta della generazione dei ventenni negli anni ’60 con i fantasmi dei propri padri, con la propria ideologia e con la paura del futuro e la necessità di combatterla a pugno sinistro alzato. Il protagonista è Sergej che, tornato da due anni di servizio militare, viene bentrovato dall’accogliente famiglia e soprattutto dai suoi due amici d’infanzia di sempre, che gli corrono incontro emozionati in un rapporto di fratellanza intensissimo. Uno dei due, interpretato da Nikolay Gubenko che poi sarebbe diventato l’ultimo ministro della cultura sovietico, è un neo-padre, l’altro un farfallone che è vicino all’innamoramento. Invece Sergej si innamora tosto di Anya e segue con lei l’ambiente studentesco, le manifestazioni, gli studi collettivi di poesia, le feste in cui si ascolta la musica pop e jazz occidentale, combattendo perché la loro relazione diventi realtà.

Nella sua prima parte, la sceneggiatura di Ho vent’anni, scritta dal regista col poeta Gennady Shpalikov morto suicida nel 1974, segue le convenzioni di un dramma basato sui personaggi, con una regia però movimentata e drammatica che riprende stilisticamente le migliori scene dei capolavori della prima Nouvelle Vague, sia nella forza espressiva e politica dell’immagine sia nella carica vitale degli individui che mostra. Ad un certo punto però succede qualcosa: Sergej ritrova Anya ad una manifestazione per festeggiare il primo maggio e la insegue perdendosi nel suo sguardo. La manifestazione è vera: le persone sono tantissime e tantissimi sono i simboli sbandierati da chi vi partecipa, tra gigantografie di Lenin o della falce e martello fino al volto di Marx stampato sulla facciata di una casa. Khutsiev mostra subito la sua necessità primaria e più immediata: esplicitare l’atto d’innamoramento fisico (fittizio) più di quello dell’attaccamento per la rivoluzione (reale). Ma il rapporto che si crea tra i due atti è quasi un rapporto di osmosi completa, come ci può anche suggerire la citazione di Gramsci inserita prima dell’inizio del testo. L’amore tra Sergej e Anya è un amore ideologico per prassi e per principio, nasce come tale e si evolve come tale. E anche la realtà e la finzione si uniscono, proprio perché la rivoluzione è qualcosa di talmente tangibile per Khutsiev che è necessario per rendere ancora più palpabile e prepotente la forza visuale e concettuale dell’amore – o viceversa. Nella seconda parte del film, le parti reali aumentano di durata, con discussioni studentesche, gare di poesia, soliloqui rivoluzionari romantici e impressionanti – il tutto girato a mano come i primi film di Frederick Wiseman (che sarebbero cominciati ad uscire qualche anno dopo), dando un simile effetto di capsula filmica per il futuro e di descrizione oggettiva dei corpi istituzionali. Molti sono i momenti commoventi, tra le storie di poeti morti sul campo di battaglia recitando versi dedicati al proprio sangue e monologhi che suggeriscono l’andare al cinema come maniera migliore per sfruttare la libertà di parola scaturita dal disgelo Khrushchev e dalla de-Stalinizzazione del periodo. E, a seguire, un meraviglioso e poetico piano sequenza che vede Sergej e Anya ballare con calma nel crescente buio tenendo in mano due candele accese che svaniscono lentamente nell’oscurità, portando l’ardore delle loro fiammanti e innamorate anime rivoluzionarie a spegnersi nell’ultimissimo momento.

E poi, il lento sgretolamento della fratellanza e delle proprie sicurezze, a partire dalla paura di non essere presi politicamente sul serio. Paura che emerge quando ad una festa Sergej fa un elogio alle patate, “che aiutarono alcuni dei nostri padri a tornare vincitori dal campo di battaglia”, e viene insultato e preso in giro da due amici di Anya (chicca: interpretati da Andrej Tarkovskij e Andrej Konchalovskij). Per Sergej è inconcepibile non avere una concezione eroica di un passato così densamente vicino alle necessità mentali della propria generazione. Non a caso vi sono continui riferimenti all’arte e alla cultura greca: ci si avvicina al topos letterario della responsabilità per le azioni commesse dal padre che ricadono sull’esperienza del figlio. E così si piega in maniera assoluta e drastica la concezione lineare del tempo: Sergej incontra il padre morto in guerra accompagnato dalla sua truppa (creando una scena impressionante che miscela ante litteram i drammi senza tempo del sogno nel tunnel di Sogni (1990) di Akira Kurosawa e della scena dell’ascensore in Cabalo Dinheiro (2014) di Pedro Costa), con cui parla di attuazione di spirito comunista nell’epoca – ma questi lo liquida con un «Io ho 21 anni e tu ne hai 23, non ho niente da insegnarti». Il tempo si piega ma con la coerenza di un sogno, un sogno che soverchia la stolta concezione eschilea dei rapporti famigliari a favore di una conclusione più aperta, libera, sognante, speranzosa e visionaria.

Ho vent’anni è un assoluto capolavoro del cinema politico, un film che riesce ad essere propagandistico senza mai risultare didattico, mostrando in maniera melanconica e poetica un dramma senza epoca. Il dolore e l’affetto della fratellanza, la Mosca in bianco e nero delle manifestazioni, il montaggio che fa fluire la vibrante realtà nella riflessione su di essa attraverso la filosofia della finzione, la bruciante anarchia dell’amore, la disperazione del nucleo famigliare che rompe le barriere del tempo: Khutsiev è come un direttore d’orchestra che si trova di fronte ad una resa musicale delle poesie politiche di Bertolt Brecht.

Nicola Settis

“I Am Twenty” (1965)
189 min | Drama | Soviet Union
Regista Marlen Khutsiev
Sceneggiatori Marlen Khutsiev, Gennady Shpalikov
Attori principali Valentin Popov, Nikolay Gubenko, Stanislav Lyubshin, Marianna Vertinskaya
IMDb Rating 8.0

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