HAPPINESS (1998), di Todd Solondz

Happiness, felicità. Probabilmente non può esistere titolo più fuorviante di quello scelto da Todd Solondz per questo suo straordinario film, decalogo di amarezza e fallimenti, fitta e impetuosa trama corale, impietosa e amarissima, di una famiglia, dei suoi segreti inconfessabili, delle sue inadeguatezze, delle sue ossessioni, della sua profonda tristezza. Presentato per la prima volta alla Quinzaine des Réalisateurs di Cannes 1998 e tornato ora su un grande schermo grazie al LongTake Interactive Film Festival di Milano, Happiness è prima di tutto un perfido gioco di incastri umani ed emotivi, è un film profondamente controverso e disturbante sull’impossibilità di trovare quella felicità che così tanto ci ossessiona, è un preciso e tragico affresco sull’eterna insoddisfazione umana, è un piccolo miracolo di scrittura e messa in scena fatto di tematiche scomode e provocatorie, coraggiosamente affrontate con un’ironia pungente fatta germogliare sui terreni più sordidi della natura dell’uomo e della società. Happiness è un film di errori e di irrefrenabili pulsioni, di repressioni e di ripetuti fallimenti, di incomunicabilità e di egoismi, di istinti contraddittori e di timidezze sessuali, di delitti passionali e di crisi esistenziali, sociali e familiari, e non certo in ultimo di una pedofilia che viene lasciata fuori dall’inquadratura, ma deflagra in ogni sua possibile sfaccettatura e implicazione psicologica fino ad affogare sistematicamente ogni residuo barlume del sogno americano nei più reconditi desideri proibiti e nelle più (in)accettabili depravazioni dei protagonisti.
Happiness è una carrellata di situazioni e di personaggi, di anime inquiete e di polvere sotto il tappeto, di rapporti umani che si sfaldano e di certezze puntualmente infrante. C’è Billy, unico personaggio davvero vitale e piccola luce in fondo al tunnel nella magnifica sequenza finale che rimetterà (quasi) tutto a posto, ragazzino di undici anni che, a differenza dei suoi amichetti o per lo meno di quello che vantano, non ha ancora raggiunto la prima eiaculazione e si confida con il padre ignorando i suoi istinti pedofili. C’è appunto un padre, Bill, insospettabile e stimato psicologo prima fatalmente attratto dagli amichetti del figlio tanto da essere disposto ad addormentare l’intera famiglia pur di dare sfogo ai suoi istinti più lubrichi, poi pronto a tradirsi prima ancora di provare a negare l’evidenza di fronte alla polizia, e infine atrocemente sincero nel confessare in lacrime davanti al figlio il suo impulso irrefrenabile, oppure quanto sia stato bello e come lo rifarebbe, “ma mai con te”. C’è poi il suo paziente Allen, interpretato da un sontuoso Philip Seymour Hoffman, erotomane e sedicente maniaco sessuale che in realtà nient’altro fa che cercare invano di dissimulare i suoi blocchi per timidezza, tanto aggressivo e compulsivo quando compone numeri più o meno a caso dall’elenco telefonico per tuonare le peggio oscenità in faccia alla malcapitata che risponderà quanto insicuro, impaurito e remissivo, incapace di avere un qualsiasi tipo di reale relazione che lo metta davvero a nudo in tutte le sue incertezze, quando si trova fisicamente di fronte all’altro sesso. C’è poi Kristina, corpulenta vicina di casa, l’unica persona che tiene Allen in considerazione ma anch’ella incapace di dichiararsi, tanto ostinata nel cercare fondi per il funerale del portiere di notte da finire per rivelarsi la sua assassina – intelligentemente contestualizzata però come omicida quasi incolpevole in seguito a uno stupro subìto, altra vittima ben più che carnefice, così come il pedofilo Bill è schiavo dei suoi istinti, del rutilare della vita e dei tabù che ruotano intorno al sesso. Ci sono infine Lenny e Mona, la coppia di anziani genitori delle tre protagoniste, stanchi della loro vita insieme e in fase di separazione (ma “nessuno ha mai usato la parola divorzio”), e soprattutto ci sono loro, Trish, Helen e Joy, le tre sorelle Jordan, tutte e tre depresse, tutte e tre sconfitte, tutte e tre vittime della quotidianità, delle circostanze, delle proprie debolezze, della propria natura.

Trish (Cynthia Stevenson) è la maggiore, apparentemente felice con la sua bella casa e i suoi due figli ma in lunga astinenza da sesso, destinata, per via dell’insospettata pedofilia e omosessualità del marito, a vedere la sua serenità familiare disgregarsi come sabbia fra le dita fra arresti e inequivocabili scritte sulla facciata della villetta. Helen (Lara Flynn Boyle, l’indimenticabile Donna di Twin Peaks) è un’altezzosa scrittrice di poesie erotiche sufficientemente maniaca del controllo per essere messa di fronte a un’inaspettata crisi personale dell’apice del successo: può avere tutti gli uomini che desidera, ma si sente falsa per non aver mai subìto nessuno degli stupri che è solita narrare. Finirà inevitabilmente per ossessionarsi per la voce del maniaco telefonico, contro-stalkerandolo fino a rimanere enormemente delusa quando scoprirà che si tratta del suo inetto vicino di casa Allen – non certo un adone, non certo uno stallone. Joy (Jane Adams) è invece, sin da subito, incapace di trovare una propria serenità, puntualmente scaricata da ogni uomo (magari leggendone poi il necrologio per suicidio) a causa della sua freddezza, sognatrice nel suo (non) talento musicale, costantemente insoddisfatta dai lavori che intraprende, ingannata persino dai suoi studenti, tanto ingenua da non rendersi conto di essere realmente una crumira che sfrutta lo sciopero altrui per lavorare e abitualmente derisa persino dalla sua famiglia che non si fa problemi a tuonarle in faccia, ridendo ma senza alcun pelo sulla lingua, tutta la disistima nei confronti di chi considera un’inguaribile fallita.
Fra abbandoni, liste della spesa ripassate a mente mentre si finge di ascoltare un paziente, serenità familiari che collassano, undicenni che si sanno da soli in casa, masturbazioni ancora infruttuose e relative preoccupazioni, altre masturbazioni al telefono ottime invece come colla, sogni di uccidere pur di non ammettere la propria omosessualità, tentativi falliti di tradimento in terza età e viaggi in taxi fino in New Jersey sull’onda di illusioni d’amore che portano a furti, aggressioni, sputi e riscatti, nel calderone narrativo di Happiness tutto e tutti vengono lasciati a macerare nelle proprie frustrazioni e nelle proprie scelte sbagliate, mentre le maschere di serenità cadono e le autodifese, così come i limiti, progressivamente vengono meno. Forse è impossibile trovare una felicità, persi come siamo nel rutilare del mondo sociale e nelle regole che impone; forse è impossibile trovare una felicità, protesi come siamo alla ricerca di un qualcosa di effimero, inevitabilmente destinato alla crisi, a sciogliersi come neve al sole. O forse no, è solo questione di aspettare che i pezzi del puzzle si incastrino, è solo questione di guardarsi allo specchio, (ri)conoscersi e tornare, una volta tanto, sinceri.
Nel suo mostrare brandelli di “normale” mostruosità, non è certo moraleggiante l’intento di Todd Solondz: il film evita accuratamente di giudicare i suoi personaggi, non ha alcuna volontà di metterli in scena come mostri; semplicemente li rappresenta come una parte di umanità sofferente ben più che anormale, inquieta ben più che malvagia, tormentata ben più che malata, come a dire che l'(a)normalità forse nemmeno esiste, ma fa parte di tutti noi, delle nostre vite, di ogni nucleo familiare, di ogni individuo. Nella selva di personaggi umanamente (im)perfetti di Happiness, sono le ombre di cui è piena la stessa natura umana a porsi come vero protagonista, sono quelle derive di tutti noi che vengono il più possibile dissimulate, ma esistono, sono tangibili e inevitabili, e prima o poi saranno destinate ad emergere travolgendo tutti i castelli di carte nei quali troviamo illusorio ed effimero rifugio: la famiglia, la società, il lavoro, persino i sentimenti. È la profonda umanità del mostro quotidiano la chiave del film per porsi come agghiacciante vicinanza e similitudine con tutti noi, ed è l’ironia spietata di Solondz a portare il pubblico a identificarsi, magari ridendone, persino nelle peggiori e più umane brutture. Sta qui tutta la forza dirompente di Happiness, la sua potenza cinematografica, il suo grimaldello per giungere alla coscienza e all’intimo di ogni spettatore, e da lì sprigionare tutta la sua devastante e al contempo corroborante forza catartica: quelli che Solondz scrive e mette in scena sono uomini medi, comuni, inseriti in una società disfunzionale che porta alla disfunzione, e il loro rapporto quasi bipolare con il sesso nient’altro è che lo specchio del loro rapporto con il circondario, con il mondo, con la famiglia, con la città con cui quotidianamente convivono. E quindi con noi, che di questo marasma e di queste disfunzioni non possiamo che fare parte, come pedine dello stesso gioco, come sovrapposizioni sui personaggi, come tanti Jordan di fronte ai quotidiani stravolgimenti.

Todd Solondz, da sempre autore di un cinema corale e profondamente personale, al contempo spietato e umanissimo, insieme atroce e sublime, trovava nel ’98 quello che probabilmente ancora oggi, a quasi 20 anni di distanza, è il suo capolavoro, un film di sconfitti, di vittime della vita ritratte nell’ambiguo buio esistenziale della propria intimità, di uomini e donne martoriati dalle proprie irrealizzazioni, dalle proprie ineluttabili derive, dai propri sensi di colpa o ancor peggio dalla loro assenza. Happiness è un film che, per tematiche e sguardo, scardina apertamente il sogno e il cinema classico americano, ponendo una famiglia – proprio quel focolare domestico che dovrebbe essere simbolo di serenità, di coesione e di perfezione – come occhio del ciclone dell’infelicità, come luogo di segreti e di sordide (in)soddisfazioni, come crogiolo di falsità e di vizi (mai) appagati. È un tessuto di storie potenzialmente infinite, quello messo in scena in Happiness. Tanto che le vicende della famiglia Jordan continueranno, interpretate da altri attori, undici anni dopo in Life during wartime, premiato per la migliore sceneggiatura a Venezia 2009 e uscito poco dopo in Italia con il fantasioso titolo Perdona e dimentica. Ma questa è un’altra storia, un altro capitolo, un altro piccolo viaggio nel cinema di Todd Solondz, nella sua capacità di commistionare comico e tragico, nella sua acuta e sfacciata libertà: per adesso rimaniamo a Happiness, al contempo credibile e assurdo, crudo e accorato, atroce e irresistibilmente spassoso, umano e profondamente inquietante.
Happiness è un film spiazzante, ferocemente ironico, tanto crudo nelle tematiche quanto paradossalmente vicino, vibrante e umano nella regia asciutta sempre addosso ai suoi protagonisti. Una regia, quella di Solondz, tanto ostinatamente “normale” da scardinare gli stilemi del cinema americano e dei suoi flussi narrativi, violenta senza violenza nel suo indugiare sullo sguardo lacrimato di un padre che ammette le proprie orribili colpe, pronta a ribaltare gli archi tipici delle musiche d’innamoramento in un’atroce tensione pedo-erotica, pronta a virare in un retrogusto malinconico anche il pop più estivo e scanzonato, pronta ad esorcizzare in una risata anche l’avvenimento più tragico, la morte, l’abbandono, l’inganno, l’incomunicabilità, l’omicidio, la solitudine che deflagra in mezzo alle altre persone. Anche per questo, Happiness è un film che ancora oggi rimane a lungo a sedimentare dopo la visione, che continua a crepitare come un fuoco nei sensi, bruciante come quello spiraglio di illusoria felicità finale, come quella coppia senza futuro che si formerà già destinata a sfaldarsi nelle telefonate oscene, ma anche come quel topless da ammirare dal balcone, e come quel sorriso un po’ ebete che non può che disegnarsi sul viso subito dopo quel viscoso momento in cui si è diventati grandi. Happiness, felicità. O forse semplice rantolo d’illusione, che squarcia solo per un attimo l’ancestrale tristezza in cui è intinta la (nostra) vita.

Marco Romagna