23 Maggio 2023 -

FOGLIE AL VENTO (2023)
di Aki Kaurismäki

Sono passati ormai trentotto anni dalle Ombre nel paradiso con cui nel 1986 il cinema di Aki Kaurismäki si immergeva per la prima volta nella classe operaia, trentacinque dal cargo Ariel su cui fuggire nel capitolo centrale verso il Messico, e più di trenta dal gennaio del 1990 con cui lo straniamento della catena di montaggio e il veleno per topi de La fiammiferaia si proponevano il compito di chiudere la trilogia dei perdenti. Eppure, in un mondo che se è cambiato lo ha fatto solo per peggiorare, non sono di certo ancora finiti i perdenti proletari vittime delle storture del sistema capitalistico. Non è ancora finito il loro alcoolismo, non è ancora finita la loro disperata alienazione, non è ancora finito il loro caustico e sardonico sarcasmo con cui tentare di sopravvivere all’aberrazione quotidiana dei Tempi Moderni (sì, proprio loro, quelli chapliniani, come si vedrà fra poco). Tanto che già in un’intervista di quasi un anno fa1 lo stesso Kaurismäki si era premurato di definire il suo nuovo Kuolleet lehdet (in titolo internazionale Fallen Leaves, letteralmente Le foglie morte, anche se il titolo italiano scelto da LuckyRed preferirà citare Douglas Sirk poeticizzandolo in Foglie al vento) come il quarto capitolo che dopo tre decadi e altri dieci film avrebbe ripreso e continuato la sua vecchia trilogia, ritornando di nuovo a mettere la sua pungente ironia nordica e amarissima, i suoi viraggi nel paradosso e la sua ben precisa coscienza politica antisistemica al servizio dei lavoratori più umili e precari, degli sfruttati, dei vessati dalle regole più insensate e crudeli. Personaggi e situazioni innestati in un’aura e in un tono che sembrano surreali e che invece sono puro iper-realismo, con cui mettere sotto la lente di ingrandimento ed esporre al confronto dialettico le contraddizioni iperboliche del mondo del lavoro sotto il Capitale e l’inumanità della società, la sua totale cancellazione del singolo nell’intercambiabilità della forza lavoro, la sua insensibilità in cui contano solo la merce (che magari poi nessuno essere umano raccoglie mentre si accatasta alla fine del rullo) e il vile denaro, le sue ingiustizie e le sue regole (in)sensate da rispettare in una quotidianità di solitudine, di avvilimento – «bevo perché sono depresso e sono depresso perché bevo» –, di totale incertezza e mancanza di diritti (il bar che assume esclusivamente in nero e che chiuderà per l’arresto del proprietario per narcotraffico proprio nella mattina che sarebbe stata quella del giorno di paga) e di gesti ripetuti all’infinito come automi di una catena di montaggio. Gli stessi gesti (ed è qui che torniamo a Charlie Chaplin) che a ben vedere già ne La fiammiferaia, con i dettagli sul lavoro in fabbrica che negavano la vista dei corpi nei vari passaggi dalla legna ai cerini, volevano guardare ai bulloni da avvitare seguendo il ritmo incessante dei macchinari di Tempi Moderni, ma che questa volta costituiscono un omaggio ancora più aperto e compiuto al film del 1936 e al suo autore forse più grande di ogni tempo, ripreso e citato esplocitamente da Kaurismäki dalla prima all’ultimissima inquadratura di Fallen Leaves con quel parimenti meccanico passare i pezzi uno dopo l’altro sul lettore di codice a barre della cassa di un supermercato che apre il film, con quella stessa capacità di mescolare il comico e il tragico nella ricerca dell’apertamente politico e dell’umano su cui si impernia l’intero scorrere della sceneggiatura, con la dolcezza struggente di quel timido bacio come unica reale possibilità per ricominciare a vivere, con quell’identica chiusura su una marcia finale a braccetto e di spalle di due persone innamorate, accompagnate da quel cane che non certo per caso si chiama proprio Chaplin, verso l’orizzonte, verso la speranza mai spenta, verso ciò che saprà riservare loro l’avvenire.

Sono la cassiera Ansa e il metalmeccanico alcoolizzato Holappa i due protagonisti di Fallen Leaves – Foglie al vento, giunto sulla Croisette nel concorso principale di Cannes76 e fortissimo candidato a un nuovo premio importante dopo la miglior regia alla Berlinale di sei anni fa con The other side of hope. Due anime sole e frustrate, che solo nel reciproco contatto umano e nell’emergere dell’amore sapranno ritrovare un lumicino speranza nella povertà, nella disoccupazione, nello sconforto, nella sfortuna. Dal loro primo incontro in un freddo e squallido karaoke, nel quale nessuno dei due fa né dice nulla ma i loro occhi non riescono a smettere di cercarsi a vicenda, fino al nuovo reincontrarsi casuale in cui offrirsi un caffè (nel caso di Holappa ovviamente corretto), in cui andare insieme al cinema (a vedere I morti non muoiono di Jarmusch, altro omaggio questa volta a un amico di Kaurismäki, con tanto di spettatori che all’uscita della sala, fra le locandine di Pierrot le fou e di Rocco e i suoi fratelli, lo paragonano assurdamente al Bresson di Diario di un curato di campagna e al Godard di Bande à part), in cui scambiarsi il numero di telefono (ma non i propri nomi) e subito vedere volare via il foglio. Per poi aspettarsi di fronte alla sala in attesa di ritrovarsi ancora, e magari questa volta cercare di non perdersi. A costo di cambiare nel profondo per lei, e a costo di vegliare un letto in attesa che un bacio di vero amore sappia svegliare il bell’addormentato. Passando per i continui licenziamenti di lui a causa del suo alcoolismo, e per quelli di lei, che invece per alcoolismo ha già perso tutta la famiglia e nonostante le piaccia molto non è disposta a farsi carico della dipendenza di Holappa, a causa dell’assurdità rigida e distaccata di un sistema di regole secondo cui i prodotti scaduti che il supermercato non può più vendere, e che è suo compito buttare nella spazzatura, «appartengono al bidone» e quindi non possono essere portati via né regalati a un bisognoso nemmeno se ancora evidentemente commestibili. Una società arida, spersonalizzante, fondata sul denaro sulla compravendita anche degli esseri umani che, ricattati per non morire di fame, vengono costretti come pedine a spostarsi da un ruolo all’altro della catena. Per un film apparentemente algido nella sua spasmodica ricerca di paradossi, imperturbabili volti lombrosiani e luoghi il più possibile periferici, malfamati, miseri e desolati (magari con un nome vistosamente sbagliato, dal California Pub al Caffè Buenos Aires, che non può essere più lontano da ciò che ricorda il loro effettivo aspetto e la loro oscura gestione), e invece straordinariamente bruciante nella sua vis politica, nella sua ironia amara e dolorosissima, nella sua profonda umanità, nella sua capacità di condensare la più dura e provocatoria lettura delle degenerazioni inumane del Capitale con l’inaspettata tenerezza di una storia d’amore, di mutamento e di speranza che all’improvviso nasce e fiorisce nel deserto sociale e dell’anima. Basta un quinto giro di alcoolici al bar, bastano un piatto e un paio di posate comprate apposta per invitarlo nella casa da single e buttate nella spazzatura subito dopo averlo scacciato ubriaco, bastano le radio che incessantemente rimandano notizie dalla guerra in Ucraina, bastano i testi irridenti e precisi del Mambo italiano che esce dal juke-boxe e dal 45 giri di Olavi Virta o delle canzoni con cui infinite nuove declinazioni di Leningrad Cowboys che questa volta non vanno da nessuna parte ma rimangono negli anfratti più tetri di Helsinki si esibiscono al karaoke nei loro vestiti pacchiani di fronte a platee immobili come manichini e impermeabili a ogni emozione. Basta una «sorella – nella Fede» che nemmeno conosce il nome di battesimo del “fratello” ma sa benissimo cosa sono il più tenero accudimento e l’affetto, e basta un treno in corsa da lasciarsi definitivamente alle spalle nel momento dell’ennesimo malinconico fraintendimento, quando lui appena ripulito e redento non si potrà in alcun modo presentare all’appuntamento e lei non potrà saperne fino al giorno dopo i motivi. Basta una comicità irresistibile e al contempo malinconicissima, cupa, straziata, fatta di silenzi e di immobilismi, di stravaganze e di paradossi, di risposte inaspettate e di freddure dai tempi fulminanti. Quella attraverso cui l’autore finlandese da sempre scrive e mette in scena il suo cinema semplice, asciutto, cristallino, minimale, che va da sempre diritto al punto senza bisogno di alcun tipo di artificio, ma solo di una sceneggiatura brillante che sa perfettamente che cosa dire, di una manciata di attori a cui affidare le traiettorie di emarginazione e sentimenti dei pochi personaggi, di qualche rullo di Kodak500 su cui impressionare in 35mm le loro performance e di una fornitura pressoché illimitata di birra da tenere sempre gelida sul set. Un cinema tanto commovente quanto irrefrenabilmente spassoso, che da sempre si schiera a fianco degli ultimi, dei proletari, dei migranti, dei reietti, e che attraverso le armi del cuore e della satira smonta pezzo per pezzo la contemporaneità nelle sue ingiustizie, nelle sue contraddizioni e nelle sue derive. Un cinema che non può esistere, fuori dal tempo, miracoloso. Ogni volta semplicemente magnifico.

Marco Romagna

Roma, 06 dicembre 2023
Ci è gradito comunicare che il film FOGLIE AL VENTO di Aki Kaurismäki, distribuito da Lucky Red, è stato designato Film della Critica dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani – SNCCI con la seguente Motivazione:
Nel suo stile classico, fuori dal tempo e dai tempi (moderni), il regista finlandese trova un barlume di speranza per la classe operaia, continuamente umiliata: bastano un uomo, una donna, e un cane protesi verso l’orizzonte. Il cinema di Aki Kaurismäki è fortunatamente una foglia ancora tenacemente attaccata all’albero, che esplora la solitudine con tenerezza e affetto.
(uscita 21 dicembre)
1 Marta Balaga, Aki Kaurismäki Reveals New Film, First Cast Members, in Variety, 10 giugno 2022, https://variety.com/2022/film/global/aki-kaurismaki-new-film-dead-leaves-1235290533/
“Fallen Leaves” (2023)
Comedy, Drama | Finland
Regista Aki Kaurismäki
Sceneggiatori Aki Kaurismäki
Attori principali Alma Pöysti, Jussi Vatanen
IMDb Rating N/A

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