4 Giugno 2017 -

ECCO L’IMPERO DEI SENSI (1976)
di Nagisa Oshima

Ancora oggi, in Giappone molto più che in Occidente, i genitali sono considerati un tabù, un qualcosa di osceno che si deve evitare con cura di mostrare: anche in buona parte della pornografia, compresa quella anime, molto spesso ci sono l’effetto mosaico o una sfocatura di postproduzione a celare il proibito, a rendere invisibile anche l’atto esplicito, a negare lo sconcio. Basterebbe questo a elevare Ecco l’impero dei sensi, fra i massimi capolavori di Nagisa Oshima prodotto non certo a caso da Koji Wakamatsu e film maledetto/di culto fin dagli anni Settanta, a ben preciso atto di ribellione politica, a stravolgimento dei costumi, a liberazione e svuotamento degli stessi concetti di oscenità e di proibito attraverso l’atto del mostrare. È tutto esplicito, in Ecco l’impero dei sensi: lo sono gli organi maschili e femminili, lo è la masturbazione, lo è la fellatio, lo è la penetrazione, così come lo sono persino, nell’avanzare delle tappe degli amanti verso un piacere sempre più estremo, le mestruazioni con cui “essere più donna” e il cibo – compreso il celeberrimo uovo sodo – intinto negli umori vaginali di Sada e poi consumato con gusto da Kichi. È tutto esplicito, in Ecco l’impero dei sensi, talmente esplicito da avere sì rimpolpato le fantasie più recondite di intere generazioni di cinefili, ma anche da annullare progressivamente ogni sua carica erotica nel procedere delle sequenze, lasciando che il senso di morte presente per tutta la pellicola prevalga e arrivi al suo apice, all’ineluttabilità della perfetta coincidenza fra ἔρως e θάνατος, alla poesia della tragedia (annunciata) finale.
Non è mai stata una semplice provocazione per creare scandalo, quella di Oshima, né ancor meno il momentaneo abbandono della verve politica per abbracciare la pornografia di cui al tempo qualche solone tacciò Ecco l’impero dei sensi. Al contrario, il film è forse il massimo apice dell’autorialità militante1 del regista nipponico, pronto non solo a mostrare espressamente il proibito fino a svuotarlo della sua stessa malizia, ma a plasmare su un drammatico fatto di cronaca una completa dissociazione dalle sfere del pubblico e del privato, in una storia d’amore adulterino per il quale salta ogni convenzione, dal vincolo del matrimonio calpestato senza nemmeno pensarci alla comune necessità di appartarsi per copulare che nulla può di fronte alla passione dei due amanti sempre pronti ad accoppiarsi di fronte a geishe e cameriere, passando per la prostituzione per raccattare il denaro necessario a vivere dei propri corpi senza ulteriori preoccupazioni. Del resto, già in Sulle canzoni sconce giapponesi (1967) Oshima aveva affrontato il piacere proibito, in Tokyo senso sengo hiwa (1970) aveva ulteriormente affilato il concetto, mettendo alla berlina un intero Paese attraverso i suoi fallimenti cinematografici e sessuali, e facendo un salto in avanti non mancherà nel 1983 di mettere in scena un altro amore proibito, questa volta omosessuale e fra nemici di guerra, per interrogarsi sulle differenze culturali in Merry Christmas Mr Lawrence. Ecco l’impero dei sensi ne sono le estreme conseguenze, è la sfera privata che prende definitivamente il sopravvento su quella pubblica, la fagocita al punto che gli amanti nemmeno necessitano più di cibo, tanto il loro amore criminale è assoluto, totalizzante, ineluttabile. Sono una coppia per cui il resto del mondo diventa solo contorno funzionale, solo cameriere che servono il saké di fronte al consumarsi della passione, solo clienti da spennare con l’ennesima performance sessuale, solo ex-mogli rapidamente dimenticate. Contano solo loro, Sada e Kichi, contano solo le loro stanze/alcove, conta solo il loro mondo, conta solo il loro diritto al piacere, che Oshima mostra da vicino eppure dal buco nella serratura, paradossalmente pudico nella sua negazione di ogni pudicizia, costantemente mortifero nei suoi colori tenui e nelle sue simbologie, smaccatamemte teatrale nelle pareti strette intorno agli amanti come se intorno non ci fosse più nulla e nei pochi e tutti funzionali personaggi in scena.

La base di partenza è la vicenda di Sada Abe e Kichizo Ishida, lei prima geisha, poi prostituta e infine cameriera, lui gestore della locanda nella quale lei, nel 1936 nel quale il Giappone imperiale chiamava ancora una volta alle armi i soldati che non a certo a caso Kichi incontrerà in una delle sequenze più ironiche, iconiche e surreali del film mentre marciano verso l’abisso distruttivo della Seconda Guerra Mondiale, era finita a lavorare. L’incontro fra i due sarà subito bollente, fatto di attrazioni e di seduzioni, di perversioni e di fughe d’amore, di continui accoppiamenti e di completa appartenenza dei propri corpi, e quindi delle proprie anime, fino all’assorbimento finale. Basterebbe concentrarsi sul titolo originale, Ai no korida, letteralmente “La corrida dell’amore”, e non “L’impero dei sensi” come nella fantasiosa (a partire dall’orribile “Ecco”) traduzione italiana: il piacere fa parte dell’amore, è una componente fondamentale, forse è addirittura l’essenza stessa del sentimento. Ed è infatti un film profondamente sentimentale, quello di Nagisa Oshima, che penetra nelle emozioni di Sada e Kichi, nelle loro gelosie, nei loro giochi non solo erotici, nell’atto d’amore e soddisfazione finale del donnaiolo disposto a morire pur di provare e dare il massimo del piacere, nella necessità della ninfomane di unirsi definitivamente con il suo uomo, di diventare lui fino a recidergli il membro e i testicoli per conservarli nel proprio kimono.
Ma dove la cronaca – e il roman porno Abesada, l’abisso dei sensi (1975) di Noboru Tanaka – parlavano di omicidio per gelosia e di macabro souvenir reciso e portato via per una sorta di scatto di follia da parte di Sada, Ohima ribalta totalmente la morte di Kichi, la rende una sorta di ultimo poetico regalo d’amore, l’apice dell’orgasmo, la raggiunta pace dei sensi subito dopo il loro punto zenitale. La cronaca del ’36 parla anche del processo, di come Sada Abe abbia accettato tutti i capi d’imputazione fra i quali omicidio e mutilazione, ma non l’accusa di essere una pervertita sessuale, fino a vincere la sua piccola battaglia facendosi visitare da un team di psichiatri che la dichiararono ninfomane e non hentai-seiyokusha. Parlano anche del suo tentativo di suicidio in carcere, di una condanna insospettabilmente breve e nemmeno scontata per intero a causa di un’amnistia, così come parlano della sua sifilide, della sua seconda vita con un uomo che la lascerà appena scoperta la sua reale identità, della sua unione a una compagnia teatrale per autorappresentare la sua storia e della sua sparizione e presunta morte nel 1970. Ma tutto questo, ovviamente, a Oshima non interessa, quello che conta in Ecco l’impero dei sensi è il rapporto totalizzante quanto ossessivo-distruttivo fra i due amanti, e forse ancor più il loro rapporto con il mondo esterno, come se la loro piccola bolla di soddisfazione e felicità, erotismo e trasgressione, amore e morte, fosse una crepa su quella morale che non accetta il sesso ma non storce il naso di fronte ai propri figli in partenza per l’ennesima guerra voluta dal narcisismo – mai come questa volta suicida – del potere imperiale. In questo senso, Ecco l’impero dei sensi è fortemente impregnato delle idee di Georges Bataille, del suo materialismo decostruzionista, dei suoi indissolubili legami fra piacere e dolore, fra trasgressione e morte, e anche della sua visione politica – nella scelta della libertà di morire e nel rifiuto dell’esterno e quindi della guerra – dichiaratamente antifascista: Sada e Kichi si trovano, si amano fino a rifiutare la ragione (anche di Stato), si appartengono, costantemente si desiderano, sempre di più, senza altre necessità né la possibilità di essere mai sazi, fino alla morte. Tuttavia, laddove la morte nel pensiero occidentale che rifiuta la vita eterna delle religioni non può che essere la fine, l’abisso, attraverso i filtri della cultura prettamente orientale di Oshima assurge a tappa fondamentale per la definitiva unione e appartenenza dei due amanti: è in un certo senso il sigillo sul loro amore, il definitivo marchio da apporre sulla loro unione per poter finalmente sfondare quelle pareti nelle quali si erano rinchiusi, dichiarando a piena voce in pubblico di essere diventati un solo corpo.

Un corpo che, però, non smette mai di essere anche merce. Non solo nella prostituzione di Sada, oggetto di desiderio in ciò che si intuisce sotto il kimono e poi nella sua ostentata nudità dalla pelle liscia, ma anche nelle voglie del barbone che la riconosce da qualche bordello passato, nella geisha vergine che viene deflorata con un uccellino di legno dalle altre geishe durante il finto matrimonio fra i due amanti, oppure nelle altre donne che, gestendo il gioco, Sada obbligherà Kichi a prendere. Fra le quali un’anziana geisha destinata a incarnare ancora una volta il rapporto ἔρως-θάνατος nel suo lasciarsi andare in un orgasmo pericolosamente ai confini con la morte, mentre i capelli bianchi escono dalla parrucca e il trucco bianco inesorabilmente si disfa. “Mi è sembrato di abbracciare il cadavere di mia madre”, dice Kichi, magari mentre Sada soddisfa l’anziano cliente, altra proiezione paterna che si staglia come simbolo di morte nell’amore e nell’atto sessuale. Eppure, mentre l’affascinante ninfomane, nella scoperta delle pratiche sadomaso, spinge il suo amante verso la morte, continua nel frattempo a scegliere la vita, stringendo il pisellino del bambino alla locanda e seguendo la bambina nel sogno finale, quando tutto è finito e la voce dello stesso Nagisa Oshima entra a ricordare allo spettatore di aver assistito a una storia vera, rendendo più graduale l’uscita dall’impianto immaginifico del cinema. Ecco l’impero dei sensi è un rifiuto categorico di ogni categoria precostituita, di ogni tara culturale che limita il sacrosanto diritto alla soddisfazione e al piacere, di ogni maschera da indossare pubblicamente per coprire la propria privata intimità. È un rifiuto politico, etico ed estetico, che emerge dalle inquadrature dettagliate, dai colori plumbei, dal sangue vaginale, dalla violenza che inizia a fare capolino nel rapporto.
Già, la violenza. Non sono solo gli strangolamenti, apice del piacere per Sada e, una volta vinte la paura e l’istinto di sopravvivenza, anche di Kichi consapevolmente ucciso all’apice del proprio piacere. Sono anche i coltelli più volte piantati da Sada alla base del pene di Kichi per minacciarlo di evirazioni nel caso avesse ancora visto la moglie oppure per indicargli il desiderio di portarlo per sempre con lei, coltelli di gelosia o di lucida follia, eppure coltelli presi e accettati come un gioco, sottovalutati: “Con questo non ucciderai nessuno”. Fra lame e cappi di seta, rinuncia all’onore dinanzi all’ironia degli astanti e accoppiamenti sempre più selvaggi e sperimentali, quello fra gli amanti è un rapporto che non può che procedere verso gli spiriti funerei evocati sin dall’inizio, un rapporto fatto di amore disperato, di corpi estatici, di ricerca spasmodica del piacere più forte, anche a costo della vita, anche a costo di abbandonare tutto e tutti, anche a costo di chiudersi in una locanda e di prosciugarsi, “rendersi scheletri”. Il loro è un rapporto adulterino, di per sé proibito e criminale, con il quale Oshima ha ribaltato il concetto stesso di moralità firmando un film da sempre pruginoso, osteggiato in ogni modo, mutilato di interi quarti d’ora e distrutto da doppiaggi infedeli ai quali interessava ben più la componente erotica che quella drammatica, umana e politica. Cannes Classics lo ha mostrato in versione restaurata, a oltre 40 anni dalla sua uscita, riportandolo finalmente su grande schermo in tutto il suo splendore e in tutta la sua eterna atemporalità, fra il teatro kabuki e l’erotismo più esplicito, fra l’amore e la morte, fra il proibito e il piacere, fra le labbra e i genitali, fra la guerra e il sadomaso, fra le sigarette e i treni in corsa. Ben al di là dei (tanti) centimetri di pelle scoperta e degli amplessi non simulati, Ecco l’impero dei sensi è un manifesto contro il falso moralismo e la censura, è un racconto poetico d’amour fou, è un ribaltamento sociale delle sfere pubbliche e private atto a smascherare ancora una volta (non solo) il Giappone. È un assoluto capolavoro, che ancora oggi osa, e che ancora oggi è per molti versi incompreso, come troppo spesso accade quando c’è di mezzo il sesso e proprio per parte dei motivi contro i quali è stato reso in maniera così esplicita. E questo, alla lunga distanza, è l’unico retrogusto amaro di un film imprescindibile, opera stratificata, necessariamente provocatoria, apertamente politica e profondamente filosofica di un genio. Come quasi sempre accade nella filmografia di Nagisa Oshima, grande fra i grandi.

Marco Romagna

1 Si torna al fondamentale ruolo culturale del cinema politico di Nagisa Oshima, Koji Wakamatsu e Masao Adachi, dai dogmatismi teorici della Zengakuren, ala radicale del Movimento studentesco alla quale tutti e tre erano affiliati e che lo stesso Oshima portò sullo schermo nel ’60 in Notte e nebbia del Giappone, a questa completa e totale libertà di linguaggio e di parola alla ricerca dell’amore, cardine fondamentale verso la definitiva radicalizzazione con la Japanese Red Army di cui Adachi fece parte fino all’arresto e che Wakamatsu mise in scena nel 2007 in United Red Army.

“In the Realm of the Senses” (1976)
109 min | Biography, Drama, Horror | Japan / France
Regista Nagisa Ôshima
Sceneggiatori Nagisa Ôshima
Attori principali Tatsuya Fuji, Eiko Matsuda, Aoi Nakajima, Yasuko Matsui
IMDb Rating 6.6