Daily – BERLINALE 65
BERLINALE 65 – BERLIN FILMFESTSPIELE
5-15 Febbraio 2015
12 febbraio, giorno 7
Ejsenstein in Guanajuato (2015), di Peter Greenaway
Ovvero i dieci giorni che sconvolsero Ejsenstein. Nel 1931 il regista Sergei Ejsenstein si diresse a Guanajuato per girare ‘Que Viva Mexico’. Peter Greenaway, nel suo omaggio al cineasta sovietico, lo dipinge come un artista eccentrico ed aristocratico, nel passaggio da ‘clown tragico’ a uomo maturo, in un romanzo di formazione che è presa di coscienza del proprio corpo, della propria indole, della propria sessualità. Le mosche sulla carne della Corazzata Potemkin diventano simbolo dell’inquietudine di Ejsenstein, della sua de-sovieticizzazione, del suo passaggio da Autore di regime ad artista maturo e fine umanista, mentre le principali correnti artistiche vengono citate e confluiscono in un continuo flusso di tensione alla bellezza. Dal surrealismo al futurismo, da Bunuel a Buster Keaton, da Chaplin a Prokofiev. Fino a Frida Kahlo, in una sequenza memorabile e straniante nel rutilante moto circolare della macchina da presa. Lo stile esagerato e riconoscibile di Greenaway, fatto di split screen, metalinguismo, sovrapposizioni, filmati d’archivio, scultura, fotografia, pittura, architettura, sesso ed orpelli fotografici, si mette al servizio dello sconvolgimento emotivo di Ejsenstein, alla scoperta di se stesso, della propria omosessualità fino a quel momento latente, dell’amore fisico e spirituale, in grado di allontanare l’interesse per la fase creativa e politica. Greenaway infatti non presta interesse al film in lavorazione, pur ricostruendone alcune sequenze e citandone le maschere, ma si preoccupa piuttosto della crescita umana ed artistica del regista sovietico, inserendo come chiave di volta centrale del film una lunga scena di sesso con Palomino, la sua guida messicana, culminante con Ejsenstein deflorato durante una sorta di lezione storica sulla rivoluzione. Un film estremamente interessante, omaggio sentito e multidisciplinare, opera d’arte totale, per quanto a tratti ridondante nella pretenzione. Ogni tanto, infatti, Greenaway esce dai binari, esagera, sacrificando all’estetica narrazione ed unità concettuale. È anche vero, però, che è tra i pochi a poterselo permettere, da uomo di cultura sconfinata ed artista a tutto tondo. Un buon film, ben più che sufficiente, ma rimane un piccolo rammarico: con qualche colpo di lima in più, ed un minimo di umiltà da parte del regista, avrebbe potuto ergersi a colosso. (M.R.)
Koza (2015), di Ivan Ostrochovský
Lo chiamano Koza, la capra. I suoi giorni migliori, come pugile, sono dietro di lui. A volte si ri-guarda il video della sue Olimpiadi, Atlanta 1996. Ora ha bisogno di soldi perché la sua ragazza è incinta. È per questo che decide di tornare sul ring. Il suo capo, per il quale raccoglie altrimenti rottami metallici, lo accompagna in questo tour (che diventa una specie di pellegrinaggio e calvario) come una sorta di impresario di boxe. Il corpo di Koza è distrutto e perde la maggior parte delle sue lotte al primo turno. Road movie di malinconia, misericordia, umanità, vita. La camera si perde attraverso paesaggi invernali, giorni in cui non viene mai veramente luce e regala all’anti-eroe un’altro spazio di quello del ring. Il boxer slovacco Peter Baláž, che interpreta se stesso qui, è di una potenza straziante. Piccolo film, squisitamente fotografato, dall’afflato umano della lotta per la resistenza quotidiana, che diventa piccolo affresco esistenzialista sul (ri)conquistarci/si un piccolo posto nel mondo. Splendido. (E.N.)
11 febbraio, giorno 6
Under electric clouds (2015), di Alexei German Jr
Elegiaco viaggio in una Russia in bilico fra passato e futuro, finzione e realtà, sogno e disgregazione delle arti e della storia, in una terra che sembra intrappolata nel proprio presente senza sbocchi verso il domani. Un film impressionista, le cui pennellate si snodano oniriche eppur lucidissime lungo i 7 capitoli-impressione che lo compongono, per interrogarsi sul futuro della Russia, delle arti, del cinema. 2017, un (terribilmente vicino) futuro postapocalittico, nel quale l’uomo vaga, come straniero e stranito, in una landa fredda, impersonale, pericolosa, dove l’unico orizzonte visibile è il confine fra la nebbia e la neve. Ma anche un grattacielo in costante costruzione, simbolo di eterna incompiutezza. Una statua di Lenin che indica il nulla, l’eco delle dimissioni di Gorbaciov, la letteratura dimenticata, la Storia riletta in chiave fantastica, caricata di elfi e folletti. Si alternano le stagioni, cambiano i personaggi, l’estrazione sociale, le situazioni. Si iniziano ad intravvedere appigli, il passato virtuoso, il rifiuto di piegarsi alle logiche di mercato in un presente devastato da capitalismo e globalizzazione, ripartire verso un futuro ricostruito da zero, una bambina per mano ed il cavallo-scheletro di ferro, gli errori del passato faticosamente trascinati nella neve e mai dimenticati, che inizia lentamente a muoversi. Film estremamente complesso e magnetico, figlio di Beckett, a tratti di Ceckov, e sicuramente di Tarkovski. Regia e fotografia da incorniciare. Forse non si tratta del migliore lavoro del regista, di cui si ricorda l’immane Paper Soldier a Venezia 2007, ma Under Electric Clouds è un grande film, schiaffo alla Russia di Putin, rivincita del glorioso passato. Astratto quanto raffinato, con ogni probabilità, non verrà capito e verrà stroncato dai più. (M.R.)
Meurtre à Pacot (2014), di Raoul Peck
Già presentato all’ultimo Festival di Toronto, Meurtre à Pacot (2014) trova nella sezione Panorama della Berlinale la sua prima europea. Nell’Haiti in difficile ricostruzione dopo il terremoto del 2010, una famiglia un tempo borghese, senza più l’amato figlio adottivo perso sotto le macerie, si ritrova in povertà, con la casa e le vite distrutte. Costretti a trasferirsi nella dépendance un tempo abitata dalla servitú per vendere quel che è rimasto della villa principale ad un bianco, impiegato in una ONG, il film rilegge -male- ‘Teorema‘ di Pasolini nel ruolo della giovane e maliziosa seduttrice, entrata nella casa come amante del locatario e nelle vite della coppia come punto di non ritorno morale. Se nel precedente lavoro, il documentario ‘Assistence Mortelle‘, Peck aveva saputo far emergere l’insensatezza e l’equalità delle classi sociali di fronte alla tragedia del terremoto, in questo film di finzione manca clamorosamente il bersaglio, risultando vuoto, banale, retorico, noioso. Laddove Pasolini teorizzava lo sconvolgimento delle vite borghesi attraverso la seduzione e l’abbandono da parte del misterioso ospite, in un climax poetico e religioso di rinuncia al ceto e alle ricchezze, Peck si perde nei peggiori cliché del drammone strappalacrime di falso impegno sociale, fra insopportabili e malcostruiti litigi, il retoricissimo personaggio del servitore ancora fedele che scava nelle macerie, l’obbligo governativo di demolire la casa, la sofferenza dissimulata per la morte del figlio, il rifiuto che rompe il precario equilibrio ed un omicidio immotivato. 130’ che non finiscono mai, per un film dalla profondità pressoché nulla. (M.R.)
10 febbraio, giorno 5
La maldad (2015), di Joshua Gil
Un anziano (il padre del regista) in uno sperduto paese messicano vuole fare un film, la storia di una vita intera raccontata attraverso dodici canzoni, tra un amore perduto e una famiglia lacerata, tutto guidato dalla logica dei sogni. Inesorabilmente, questa opera non potrà venire alla luce, troppo tempo è passato, e più di tutto manca l’umanità necessaria a percepire quel tipo di lavoro. Ma forse il suo film è quello che stiamo già guardando . Lo stesso senso di nostalgia è sicuramente lì fuori, nei paesaggi solitari, nella nebbia all’alba, e nel fuoco inestinguibile. Dodici tracce che evocano un mondo lontano ed altre figure di questo paesaggio impossibile. Tra la politica, la documentazione, la Storia e uno stralcio di road movie, in cui un uomo sparisce nella nebbia e un altro fa il suo cammino verso la grande città. Un incontro importante, una dimostrazione estemporanea, improvvisa e una dissolvenza in nero. L’amicizia che vince sull’amore, fino alla fine. Il cinema che per l’ennesima volta è morte al lavoro, mentre continua a (ri)chiamare la vita. (E.N.)
Hotline (2015), di Silvina Landsmann
La Hotline è una piccola ONG, centro accoglienza per rifugiati stranieri a Tel Aviv. Ad avere bisogno di aiuto, uomini e donne in fuga da guerre e povertà. Egiziani, ivoriani, magrebini, sballottati fra leggi ingiuste, arresti immotivati, reiterata noncuranza da parte del governo israeliano nei confronti della convenzione di Ginevra. Sono tante le storie che passano dall’ufficio, tante le persone senza nazionalità nè diritti. Dall’altra parte, volontari che si prodigano fra l’ostilità della popolazione ed una durezza legislativa ai limiti del razzismo. La regista li segue fino in carcere, in tribunale e addirittura in parlamento, offrendo uno spaccato dall’indubbio interesse sociale, tuttavia troppo debole dal punto di vista cinematografico. Il film si perde nella troppa carne al fuoco, finendo per risultare fastidioso nel tremore della macchina, troppo prolisso, freddo. Peccato, perché il materiale umano per un buon documentario ci sarebbe stato. (M.R.)
Jiǎ Zhāngkē, a guy from Fenyang (2014), di Walter Salles – Tokyo Ga (1985), di Wim Wenders
Con colpevole ritardo ho recuperato “Jiǎ Zhāngkē, a guy from Fenyang”, omaggio che Walter Salles ha voluto dedicare al grande regista cinese, genio conclamato del cinema del nostro tempo. Nella stessa giornata, il caso ha voluto che riuscissi a vedere, frutto di un magnifico restauro, anche “Tokyo Ga” di Wim Wenders, che pure è una celebrazione per immagini: di Tokyo, e del suo cantore cinematografico per eccellenza, Yasujiro Ozu. Salles e Wenders, pur nelle profonde differenze, sono due registi che amano il viaggio. È forse per questo motivo che le due opere di “scoperta visiva” che hanno realizzato sono probabilmente tra gli esiti più alti delle rispettive carriere, per la sincerità e l’onestà con la quale sono girate, per la autentica sete di verità che guida l’occhio degli autori. “Tokyo Ga” comincia subito con la dichiarazione d’intenti di rendere tributo a Ozu, poi sembra che Wenders si perda gioiosamente in una personale flanérie, per culminare, infine, nei commoventi incontri con l’attore Chishû Ryû e il direttore della fotografia di Ozu Yûharu Atsuta, dopo momenti di cinema memorabili che ci consegnano la passione per il golf dei nipponici, la sapienza quasi da accordatore di pianoforti di un riparatore di flipper, fino alla clamorosa fabbrica di cera di cibi fac-simile da esposizione. Di tutt’altro tenore è la “passeggiata” di Salles, che si proclama biografo per immagini di Jiǎ Zhāngkē: insieme si fanno compagnia in un percorso di (auto)scoperta che dice tanto non solo di un regista, ma soprattutto di un uomo e di un popolo. Jiǎ, introducendo il suo cinema a una platea di studenti, spiega che dagli anni ’40 la cinematografia cinese ha perso interesse per le persone ordinarie, preferendogli – ovviamente – i paladini della propaganda. È qui che si manifesta il valore assoluto del film di Salles: proprio alle persone ordinarie Jiǎ Zhāngkē restituisce dignità cinematografica, ed è orgogliosamente una di esse. (EDP)
Über die Jahre (2015), di Nikolaus Geyrhalter
Prendendo la scomparsa di una fabbrica tessile nella regione di Waldviertel (Austria) come punto di partenza, con lo stabilimento di produzione antiquato inizialmente mostrato in piena attività, il film pone la questione di che cosa significa il lavoro per l’immagine di sé e il carattere della gente. Apparentemente è questo, ma anche molto altro. Dopo che la fabbrica fallisce e chiude, il regista accompagna alcuni dei suoi dipendenti che continuano a farsi strada, interrogandoli sulla loro routine quotidiana, le circostanze in cui vivono, in cerca di lavoro, o delle nuove possibilità che trovano. Una situazione della donna è precaria, ma questo non le impedisce di allevare i suoi nipoti. A poco a poco, diversi aspetti della loro vita privata e le disgrazie personali emergono. Ciò che inizia come la documentazione di un ramo di industria autoctona morente si sviluppa nel corso di dieci anni in un racconto epico, documentario della vita e del lavoro nell’era post-industriale. Tra l’analogico e il digitale, tra due ere, dieci anni che sono il crinale di un universo. E’ un film straordinario, commovente, un anatema dedicato alle persone, un momento di riflessione unico. Su di noi, su dove (non) stiamo andando. (E.N.)
El club (2015), di Pablo Larraín
Il regista cileno Pablo Larraín, dopo la trilogia su Pinochet, scava nei sordidi segreti del cattolicesimo. Ne risulta un film profondamente intriso di impegno politico, attento a portare a galla la pedofilia, i maltrattamenti sui minori, l’oscura omertà che avvolge la mala chiesa. Un film che, lungi da qualsivoglia semplicistico giudizio retorico, si interroga dolorosamente sui fatti, sui motivi, sulle (non) contromisure, sul falso pentimento forzato, sui danni psicologici e le drammatiche cecità dettate dal bigottismo e dal silenzio. Il cineasta cileno cambia ancora genere e modalità di racconto, senza perdere un solo briciolo della propria sconvolgente potenza. Dopo le danze infernali di Tony Manero, il senso di malessere quasi claustrofobico dell’obitorio di Post Mortem e le videocamere low fi di No!, Pablo Larraín firma un lungometraggio dalla cura visiva e fotografica maniacale, fatto di natura ed orizzonti quasi infiniti ma anche oscurità, chiusura geografica e mentale, lentissime carrellate di indagine discreta ed emotiva. Penitenza e silenzio, violenza e ipocrisia, esistenzialismo e thriller. El club è un grandissimo film, principale candidato alla vittoria finale e alla permanenza sempiterna nei cuori di chi lo ha visto. (M.R.)
9 febbraio, giorno 4
Viaggio nella dopo-storia (2015), di Vincent Dieutre
Il regista francese Vincent Dieutre rivisita il Viaggio in Italia di Rossellini attraverso gli scritti di Pier Paolo Pasolini. La dopo-storia, secondo Pasolini, è la difficoltà del popolo di mantenere le relazioni storiche col passato. Un concetto doloroso, elaborato nei giri notturni in auto fra l’Appia e la Tuscolana. Il film di Dieutre è profondamente complesso e stratificato nelle sue tre parti: da un lato, il lavoro del regista, chino nel suo studio davanti a youtube, la sua volontà di omaggiare Rossellini in quanto padre del cinema moderno, dall’altro, un colloquio con il produttore, i problemi sui diritti d’autore e la lettera con la quale Isabella Rossellini autorizza Dieutre ad utilizzare liberamente l’opera dei genitori. Poi, il remake vero e proprio, viaggio a Napoli nel quale il regista ed il suo compagno reinterpretano, attualizzando in chiave omosessuale, le fasi principali del film originale: sullo sfondo di una sfera sociale ribollente, il rapporto di coppia è gioia, litigi, incomprensioni, viaggio, Storia, amore(?). Una coppia di estranei, che non hanno più nulla da dirsi. La Napoli attuale pare avere perso la memoria storica e sociale che aveva così tanto stregato Ingrid Bergman, aprendo verso gli amari concetti pasoliniani. Un film scritto e riscritto più volte, inclassificabile, emozionale, creativo: non è un remake, non è un omaggio, non è un documentario, non è fiction. E’ Cinema puro, essenza del creare, senso di ammirazione. La sfera privata si affaccia su quella sociale, si aprono i salotti, ci si pongono molte domande, e solo alcune hanno risposta. Un’opera immensa, straordinaria. (M.R.)
Balikbayan #1 Memories of Overdevelopment Redux III (2015) di Kidlat Tahimik
La lingua è la chiave per l’impero, da sempre. Enrique è schiavo di Ferdinando Magellano, che circumnavigò il globo e scoprì le Filippine. Oltre a fare il bagno Magellano ogni sera, Enrique ha tempo anche per tradurre le lingue filippine in portoghese e spagnolo. Il film si apre con una scatola di cartone contenenti rotoli di film nascosti nella terra. Girato nel 1980, le immagini mostrano lo scorrere del tempo e raccontano la storia della circumnavigazione. Magellano è morto poco prima che il viaggio fosse completato, ma aveva autorizzato che Enrique diventasse un uomo libero. Enrique successivamente scolpì i suoi ricordi del viaggio in legno, con le sculture che adornano il suo giardino. Balikbayan # 1 intreccia la storia ufficiale con quella di Enrique, così come con il taglio del regista Tahimik che iniziò le riprese 35 anni fa al fine di scoprire la verità e ha poi continuato in un villaggio nella provincia di Ifugao nel 2013. Gli attori non sono più gli stessi, e Tahimik, che fu Enrique nel 1980, è cresciuto. Gli anziani sono mancati, così come sono nati i bambini. Balikbayan # 1 è un home-movie, un epico fiammeggiante, uno studio di colonialismo. Un dolcissimo e malinconico viaggio nel viaggio, un particolarissimo sguardo sulla storia, un affresco sul tempo dell’umanità. (E.N.)
Ce gigantesque retournement de la terre (2015), di Claire Angelini
La Normandia è un luogo ricco di storia – dopo lo sbarco degli Alleati il 6 giugno 1944, è diventato uno dei territori più contestati della Seconda Guerra Mondiale. Facendo riferimento allo splendido ed invisibile film di Jean Grémillon (Le sei juin à l’aube), che è stato girato nel 1944/5 sotto l’influenza diretta della distruzione totale della regione, questo saggio documentario effettua un’ispezione alla ricerca delle tracce lasciate dalla storia 70 anni più tardi. Ma i paesaggi sono sempre più silenziosi, ci dicono sempre meno di loro stessi, soprattutto se le cicatrici del passato rimangono enormi. Come può essere resa visibile la storia nel presente attraverso il cinema? Un anziano ancora oggi dalla guerra in gioventù (ri)costruisce i suoi ricordi. Poi i luoghi del film di Grémillon sono mostrati nel loro stato attuale, straziati dalla musica drammatica e il commento del film originale. Poi ci sono i riflessi fuori dallo schermo attraverso l’architettura del dopoguerra e immagini di edifici che rappresentano “la modernità urbana”. Le immagini e soprattutto i suoni espongono diversi strati temporali e sedimenti storici, ancora iscritti nel terreno anche se sempre più invisibili. Un film a tratti eccessivamente derivativo e spesso dalle immagini non così potenti, ma che sedimenta nel mostrare la perpetrazione del vuoto, a cui lati continua a vivere, soffrire e lottare l’uomo. (E.N.)
An Actor’s Revenge (1963), di Kon Ichikawa
Terzo ed ultimo lungometraggio della miniretrospettiva berlinese sul grande Kon Ichikawa. An actor’s revenge è uno splendido impianto metateatrale nel quale la vendetta che il protagonista vuole attuare diventa il canovaccio teatrale stesso, l’obiettivo da perseguire, lo spettacolo che deve andare avanti nonostante tutto, l’amore e la morte di innocenti. Tokyo (al tempo Edo), anni Trenta dell’800. Il palcoscenico, l’attore Jukitaro che interpreta, secondo l’uso del tempo, ruoli femminili. Il Cinema si tuffa nel teatro, una fotografia memorabile fatta di continui e romantici cambi di luce dichiara l’overacting, lo rafforza, introduce i monologhi. La vita di Jukitaro, la morte dei suoi genitori per colpa di avarizia e tradimenti da parte di tre uomini d’affari, l’occasione per vendicarsi, molti anni dopo. Ma anche un ladro gentiluomo, sorta di Robin Hood nipponico, alleanza insperata e sardonico narratore. Il piano, gli stratagemmi, la difficile attuazione. La musica, dal koto al jazz, i vortiginosi cambi di ritmo, le carrellate cinematografiche che abbracciano la magia eterna del teatro. Nelle forme apparentemente ‘di genere’ del film di samurai, Ichikawa inserisce una dichiarazione d’amore verso le arti, la poetica, le tradizioni, il Giappone. La tensione al teatro è costante, ma il film non perde nulla in linguaggio cinematografico, né in perfezione dello stile, sapendo conciliare -al pari di Kurosawa, ognuno a suo modo- le più antiche arti nipponiche con le influenze western in arrivo da occidente. La recitazione sarà parte fondamentale nell’attuazione della vendetta, ancor più di astuzia e spada. La costanza nel perseguire il proprio senso di giustizia, l’accettazione delle sofferenze -anche delle ingiustizie- per perseguire il disegno più grande, ciò che è giusto: la mentalità della società samurai, in una satira agrodolce di importanza etnografica indiscutibile. Ancora sul palco, per l’ultima recita. Cala il sipario, la vendetta è compiuta, è tempo di pensare, stare soli, rimpiangere, essere soddisfatti, dileguarsi lentamente in un campo di grano. (M.R.)
8 febbraio, giorno 3
El botón de nácar (2015), di Patricio Guzmán
L’acqua così diventa l’elemento che nasconde questo passato e proprio da li bisogna partire per farli venire in superficie. Le immagini diventano il luogo di proiezione di tutto ciò che è sommerso. Da cui emergono storie e persone, embrioni e scheletri, come urla. Del popolo indigeno della Patagonia pitturato perché pensava di diventare costellazione dopo la morte. Dei prigionieri politici torturati e uccisi durante la dittatura, muti perché pensavano che per la libertà non fosse necessaria la morte. El botón de nácar è quella goccia d’acqua incastonata in un cristallo nel mezzo di un deserto (con cui si apre il film), è l’ineluttabilità della memoria che come un coltello riapre un ferita, è un atto d’amore smisurato verso l’esistere. È un film splendido, che togli il fiato e che regala altre gocce, di lacrime. Un film da vivere. (E.N.)
Knight of Cups (2015), di Terrence Malick
Si parte da The Tree of Life, si passa per To the Wonder e si giunge (per ora) a Knight of Cups. Terrence Malick ha il volto di Christian Bale e l’animo di chi sente il bisogno di andare incontro al suo destino. Vaga disperso mettendo insieme i pezzi della sua vita, trascinandoci dentro l’ex moglie Cate Blanchett e l’amante Natalie Portman, luce ed ombra della sua esistenza. A Malick non interessa più la realtà, forse nemmeno la fede o neanche l’immagine delle cose che rappresenta. Ecco allora il bisogno disperato di alzare gli occhi verso l’alto in cerca di risposte, sollievo. L’amore di cui parla Malick è vivere a pieno il presente e cerca di farcelo immaginare. Ma ciò nella vita (e soprattutto al cinema) è impossibile; i ricordi e le debolezze lo trascinano reiteratamente in una spirale di nonsenso, in quel vuoto di quel cielo quale non si vede né inizio né fine. È un cinema molto complesso e di un’ambizione, quanto irritante nel suo voler realmente tentare di colmare lo spazio presente nel nostro personale vivere, mostrando l’assoluto per riappacificarsi cui riappacificar(si). Film ancora più ingiudicabile dei precedenti, che da una parte si mostra sempre più nullo e vacuo e dall’altra (ri)definisce un immagine sublime sull’apocalisse del reale e la sua fuga infinita. Al prossimo capitolo, alla prossima rivelazione (?). (E.N.)
Haftanlage 4614 (2015), di Jan Soldat
Era una delle visioni che più attendevo, e ho voluto interpretare come segnale beneaugurante il fatto che Haftanlage 4614, il nuovo film di Jan Soldat, sia stata la mia proiezione d’esordio alla 65esima Berlinale. Jan – sì, mi piace chiamarlo così, perché abbiamo avuto modo di abbattere le barriere della forma e poi perché anche il suo Cinema è così, informale, senza schermi (tranne quello su cui si dipana mentre lo guardiamo) – è uno dei più grandi talenti del cinema europeo, o quantomeno del cinema in lingua tedesca. Ideatore di uno sguardo nuovo e autentico, già personalissimo, eppure non astruso, ma – almeno ai miei occhi, e secondo il mio sentire – straordinariamente chiaro, accessibile, puro. I più fortunati hanno potuto ammirare un suo lavoro al festival di Roma di due anni fa, Der Unfertige, eccezionale racconto della vita di un uomo che si costringe a vivere da schiavo, e anche in Haftanlage 4614 tornano i talismani macabri delle cinghie, delle catene, dei ganci, delle manette. Il “prison sistem” del titolo è un carcere privato al quale fanno ricorso uomini che decidono volontariamente di farsi imprigionare e torturare. Il film di Soldat è addirittura commovente a tratti, e il miracolo è che questo dispositivo si attivi direttamente dal suo fare cinema, dal suo gesto filmico, così onesto e trasparente da indurre anche chi è davanti alla macchina da presa a non risparmiarsi nella propria verità e nei propri segreti. La frontalità della messinscena accomuna visivamente il cinema di Soldat a quello di Ulrich Seidl, e in maniera particolare questo film all’ultimo lavoro del regista austriaco, visto a Venezia, il memorabile Im Keller, dove pure storie di dominazione e masochismo si annidavano nei sotterranei di un condominio. Però stilisticamente lo scarto c’è: laddove Seidl spesso e volentieri interrompeva l’immobilità del proprio sguardo con l’uso della camera a mano, così Soldat fa ricorso a inquadrature spiazzanti, quasi astratte, strette sui dettagli con zone di fuoco e fuori fuoco confinanti e confuse, che poi, però, prendono senso appena i personaggi – forse faccio meglio se dico “persone” – le attraversano e le vivono. Un film meraviglioso, cui i giovani autori dovrebbero guardare per fare il punto sulle profondità che può raggiungere il cinema del reale. (EDP)
Rabo de Peixe – the Directors’ cut(2015), di Joaquim Pinto e Nuno Leonel
Joaquim Pinto e Nuno Leonel partono dal capodanno fra il ’99 e il 2000 da Rabo de Peixe, piccolo villaggio di pescatori nelle Azzorre, girando per quasi due anni senza uno script, ma entrando nelle vite delle persone. La pesca, la preparazione del pesce, la vendita, la spartizione -in parti uguali- dei guadagni: la vita. Ma anche l’amicizia, la gioia conviviale, l’attaccamento alle radici, l’espressione, Cinema che si autoalimenta e sgorga spontaneo. Le persone perse in mare, le partite di calcetto, chi non sa nuotare, chi diventa bravo nel lavoro, chi mette su famiglia, il passaggio all’euro, le immagini sulla barca, quelle subacquee, l’esaltazione della natura. Emerge un sincero affresco che si erge a trattato sulla libertà. (M.R.)
Ototo – Her brother (1960), di Kon Ichikawa
Assoluto capolavoro del regista giapponese, che riscrive le regole del dramma familiare. Intriso di un’umanità straziante che punta dritta al cuore, Ototo lavora sul rapporto fra un fratello ribelle diciassettenne, con i suoi errori di gioventù, e la sorella di poco maggiore, costretta a crescere troppo in fretta per prendersi cura di lui. Piccoli litigi in legami inossidabili. I genitori, presenti ma assenti per lavoro e malattia, l’ossessione religiosa della madre, le apparenze, la facciata da salvaguardare. Carrellate laterali, cavalli e tramonti. Sarà la tragedia, sotto forma di tubercolosi, a far calare ogni tipo di freddezza ed ipocrisia, lasciando spazio all’emozione più pura ed ancestrale, nella calda coperta di una leggerezza filmica che solo i grandissimi orientali sanno avere. Un film che mozza il fiato. Per chi scrive, lo ammetto, è stata sinceramente dura trattenere le lacrime. (M.R.)
7 febbraio, giorno 2
Counting (2015), di Jem Cohen
Cohen è perennemente in viaggio, da New York, a Mosca, a Istambul ed in altri luoghi accennati, difficili da riconoscere. Le inquadrature si susseguono, i rapporti di montaggio si perdono, il flusso avanza teneramente e si disperde, contrappuntato dalle note dei nostri tempi, che anch’esse contengono e compongono il rumore bianco visivo della nostra vita, e che solitamente tendiamo a trascurare. La sua videocamera è mossa solamente dall’empatia, come dall’umanità che ci chiama, anche simbolicamente, a scegliere quel campo da rappresentare. Quindici capitoli, quindici passi e quindici affreschi. Senza spazio e senza tempo, solo figure in un paesaggio. Dediche per Anton Cechov e Chris Marker, in un film/percorso/tentativo che cerca continuamente una possible via esplicativa, del mondo, di noi. Film complesso da descrivere, da apprezzare e da vedere. Ma che dona tutto ciò che è stato donato dal mondo (e dall’uomo) all’autore. (E.N.)
Une jeunesse allemande (2015), di Jean Gabriel Périot
Dalle prime sommosse in una Germania dall’autunno sempre più stratificato, all’evoluzione e scioglimento della Banda Baader – Meinhof. La RAF e i suoi ennesimi protagonisti come Ensslin e Meins e sullo sfondo Kluge e Fassbinder; in un paese uscito dalla guerra e dal nazismo senza però aver mai affrontato tutto questo fino in fondo. Periot si affida totalmente agli archivi: non c’è un commento fuori campo declinato al presente, e lui non giudica la Storia che i materiali raccontano anche se ovviamente è il suo punto di vista che li tiene insieme. Importante diventa proprio la scelta di tradurre questa esperienza in un immaginario collettivo che negli anni in cui accade appartiene a tutto il movimento nel quale politico è scendere in piazza e fare film, performance, teatro, dissacrare coi proprio corpi. Il vissuto è un’arte provocatoria e disturbante nella sua ostinata proposta di un altro mondo dove stare. Periot non prende posizione, lascia libero il suo spettatore davanti i suoi dubbi e anche le sue riflessioni. Riamangono molti dubbi e la sola certezza che un certo tipo di militanza e di sensibilità per qualsiasi tipo di comunità sia persa per sempre. Interrogandosi da nuovo giovane tedesco, interroga quelli di mezzo secolo fa, e quindi la Storia stessa, sempre più complessa. (E.N.)
ENJO – Conflagration (1958), di Kon Ichikawa
Un monaco novizio affetto da balbuzie, il leggendario Tempio Shukaku, un’indagine di polizia. Ichikawa gioca con il tempo ed il cinema, donando a noi http://viagrabuynow.com posteri di un’opera che ancora oggi -57 anni dopo- riesce a stupire per la sua vitale modernità. Allegoria ed esempio del contraddittorio Giappone figlio di Hiroshima, perso fra tradizioni che si sgretolano e vani tentativi di dissimulare i cambiamenti inevitabilmente imposti al Paese dall’occidentalizzazione postbellica, Conflagration è un film che si insinua sotto pelle, sedimentando a lungo dopo la visione. Con ampio e sapiente uso di analessi e prolessi, Ichikawa traspone sullo schermo un dramma tratto da Mishima, piccola ascesa e greve declino. Una vita di obblighi, drammi familiari, sofferenze sempre più gravi, delusioni, perdita della sanità fisica e mentale, forse del senso di giustizia, qualche caduta della moralità, ma mai dell’orgoglio. Non manca l’ironia, a volte nera, né la capacità di sdrammatizzare, fino al tragico quanto inevitabile epilogo. Un film sulla necessità ineluttabile, un film sulla ricerca della bellezza -umana, geografica e spirituale-, un film sulla sua caducità. Un film da recuperare. (M.R.)
The Days Run Away Like Wild Horses Over the Hills (2015), di Marcin Malaszczak
Una giornata qualsiasi, in un posto qualsiasi. Recitato in inglese, tedesco e polacco, a seconda di location, situazioni e persone. Persone che recitano la propria vita, o semplicemente la vivono, nella solita confusione del postmoderno tra documentario e fiction, ma dove il confine oramai non serve più. Macchina a mano ora mobile e isterica, ora immobile a immortalare paesaggi ghiacciati o gente impegnata in interminabili operazioni di ordinaria quotidianità. Passaggi dal colore al bianco e nero e ancora al colore, tonalità di tempi e spazi. Ma rappresentare questo senso di perdita e di vuoto atraverso il vuoto e il nulla non serve, se non nel reiterare la vita. Malaszczak (ri)definisce i confini del percepire la vita, non la giudica, non la guarda, non la pensa, la percepisce e la osserva. Film intimissimo quanto estremamente complesso, che colpisce, destabilizza, incanta e grida ad un mondo (diverso?). I giorni scorrono, ma siamo ancora convinti di riuscire a percepirli? (E.N.)
6 febbraio, giorno 1
Queen of the desert (2015), di Werner Herzog
Il biopic narra per la prima volta la storia di Gertrude Bell, britannica annoiata dall’alta società cui appartiene e che sceglie di fuggire in Medio Oriente, dall’Iran all’Arabia, diventando un’esperta delle culture locali, fino a essere una figura quasi mitologica e geopoliticamente forte. Da tutto ciò ne deriva un film senza dubbio discutibile, ma di difficilissima interpretazione. Nonostante tutto (non dimenticando il fatto che si tratta di un film commissionato) Herzog riesce a portare a termine con fatica la missione, nonostante un acclarata mostra di luoghi comuni europei (e non solo) della vita nel deserto e trasformando la Kidman in un elemento del paesaggio/passaggio, soprattutto quando l’occhio dell’autore si apre verso sguardi molto più consoni alle proprie avventure. Sicuramente un film minore, che non può aggiungere nulla alla carriera del grande regista bavarese, ma non per questo da deprecare. (E.N.)
Taxi (2015), di Jafar Panahi
Fingendosi tassista, si mette alla guida di un auto raccogliendo i più svariati passeggeri. Dallo studente di cinema alla nipotina che va a prendere a scuola. Viaggio che diventano l’occasione reale di parlare, e dunque dare, cinema. Film sofisticato nell’apparente semplicità, dove Panahi riscrive i discorsi sulla politica, sul regime del suo paese, sulla libertà dei singoli, sull’arte (anche quando si configura come menzogna). Dimostrando ancora una volta di essere un ottimo narratore, di sapersi muovere anche (quasi) in diretta. La nipote che vorrebbe girare un corto ed elenca le regole iraniane per un buon film (di regime); nonostante ciò qualcosa pare cambiare. Spesso troppo costruito, non sempre così leggero come vorrebbe/dovrebbe essere, il lavoro di Panahi rimane un piccolo onesto film, che a tratti colpisce. (E.N.)
Ha inizio la sessantacinquesima edizione della Berlinale – Berlin FilmFestSpiele. Per CineLapsus.com, da Potsdamer Platz, Elio Di Pace, Erik Negro e Marco Romagna.