23 Gennaio 2019 -

Diaries notes and sketches
Lettera (frammentaria) al secolo di Jonas Mekas (1922-2019)

That’s me, one ‘me’ of many. The very question of what is a story, is a provocative question
Jonas Mekas

A Jonas
(Biržai, 24 dicembre 1922 – New York, 23 gennaio 2019)

As you well know it was God who created this Earth and everything on it. And he thought it was all great. All painters and poets and musicians sang and celebrated the creation and that was all OK. But not for real. Something was missing. So about 100 years ago God decided to create the motion picture camera. And he did so. And then he created a filmmaker and said, “Now here is an instrument called the motion picture camera. Go and film and celebrate the beauty of the creation and the dreams of human spirit, and have fun with it. – Senza bisogno di raccontare cosa tu possa essere stato, tanto meno di cosa i tuoi occhi possano aver visto. Senza parlare dei tuoi film e del tuo lavoro teorico, del tuo essere instancabile nell’attraversare tutti e così amarli, senza pensare a come il secolo appena passato possa essere stato tuo, come del cinema (e di pochi altri, quasi nessuno sopravvissuto a te). Se davvero Dio ha creato il film per donarlo all’uomo affinché con esso potesse celebrare la bellezza del mondo, tu forse sei stato il primo a capirlo. Già in Lituania, già nei campi di lavoro nazisti, già in quella dolorosissima fuga verso occidente. Verso un nuovo orizzonte, per viverlo quasi in cattività.

But the devil did not like that. So he placed a money bag in front of the camera and said to the filmmakers, ‘Why do you want to celebrate the beauty of the world and the spirit of it if you can make money with this instrument?” And, believe it or not, all the filmmakers ran after the money bag. The Lord realized he had made a mistake. So, some 25 years later, to correct his mistake, God created independent avant-garde filmmakers and said, “Here is the camera. Take it and go into the world and sing the beauty of all creation, and have fun with it. But you will have a difficult time doing it, and you will never make any money with this instrument”. – Da un diavolo all’altro. Arrivi negli Stati Uniti, patria (fino allora) di quel cinema che guarda al denaro prima che alla bellezza, e mentre tu vivi nella Brooklin più povera e malfamata (quella degli ultimi) la filmi per conservarne l’attimo e protrarlo all’infinito. C’è la vita che pulsa lì in mezzo, c’è una New York che cambia e il tuo occhio è disperso tra quelle immagini in rivolta. Nel tuo sguardo c’è Thoreau (forse anche Emerson, sicuramente Whitman e il senso dell’esistere come presenza, e basta); c’è la persistenza di una spiritualità immanente, di un ’intreccio più o meno casuale di presenze e di incontri, di vicinanze e lontananze che diventano trama del tuo tessuto esistenziale (una bruciante flagranza del “fare cinema” al cospetto della glaciale concretezza del reale). C’è il vuoto e ci sono le cose, c’è il passaggio, c’è la frattura attraverso cui vedere.

And the museums all over the world are celebrating the one-hundredth anniversary of cinema, costing them millions of dollars the cinema makes, all going gaga about their Hollywoods. But there is no mention of the avant-garde or the independents of our cinema. / I have seen the brochures, the programs of the museums and archives and cinematheques around the world. But these say, “we don’t care about your cinema.” In the times of bigness, spectaculars, one hundred million dollar movie productions, I want to speak for the small, invisible acts of human spirit: so subtle, so small, that they die when brought out under the Klieg lights. I want to celebrate the small forms of cinema: the lyrical form, the poem, the watercolor, etude, sketch, portrait, arabesque, and bagatelle, and little 8mm songs. In the times when everybody wants to succeed and sell, I want to celebrate those who embrace social and daily failure to pursue the invisible, the personal things that bring no money and no bread and make no contemporary history, art history or any other history. I am for art which we do for each other, as friends. – Mancava solo lo spazio per quel sogno e tu – con tuo fratello Adolfas – l’hai creato (l'”Anthology Film Archives”, ndr). Un luogo per incontrarsi e conoscersi, una casa possibile in cui sentirsi meno soli, uno spazio della memoria nel suo farsi, un archivio infinito del frammento (anche scritto) che lotta incessantemente contro il suo oblio. Hai dato dignità al lavoro tuo e di tutte le altre schegge impazzite come te, hai lavorato per far emergere quelle immagini dall’abisso, ontologicamente dal seminterrato. Partendo dal tuo studio ricolmo di materiali e scatole, dal privato che vive nell’’urgenza di un ’archiviazione continua. Prima di ’uscire ancora di casa in cerca di storie tristi, o piene di bellezza, strappate dal caso/caos e fissate nel/al cinema. Per finire poi tra gioco di riflessi e reminiscenze di un’infanzia trovata nel verde di un bosco. E così ricominciare, all’infinito.

I am standing in the middle of the information highway and laughing, because a butterfly on a little flower somewhere in China just fluttered its wings, and I know that the entire history, culture will drastically change because of that fluttering. A Super 8mm camera just made a little soft buzz somewhere, somewhere on the lower east side of New York, and the world will never be the same. – Ti sei divertito, in giro per il mondo, filmando la tua camera come l’universo tutto. Sei tornato a casa e ci hai restituito il tuo viaggio, ci hai reso partecipi delle tue mille (e una) notti sveglie, ci hai raccontato la fragilissima bellezza di ogni possibile giorno dell’anno (così da farci pensare, e ricordare, i nostri). Come una farfalla che in soggettiva continua ci mostra un reale transitorio e visionario, ci hai mostrato una vertigine instabile e poetica che cambia il punto di vista sulle architetture dei mondi attraverso la memoria di una camera a mano. Il rumore di quel flusso continuo di pellicola che incastra in ogni fotogramma una porzione del sé, di noi tutti che ci siam trovati ad attraversare i tuoi film come se calpestassimo i tuoi luoghi, lasciando gli stessi solchi tra visto e vissuto. Dalla prima volta, era il 1962, quando guardasti le tue immagini con la stessa emozione che potevano provare i pionieri che videro le fotografie muoversi; e in esse poi trovare un flusso, una forma diaristica libera e anarchica che potesse restituire prima l’impressione del ricordo stesso. Un mondo nuovo, lirico e misterioso, dove il tempo e lo spazio non esistono più, dove tutto fluttua tra l’occhio e il cuore. Si perde il fuoco come l’esposizione, entrano le didascalie, i fotogrammi paiono fondersi l’un l’altro, si sovrappongono appartenendosi. Ed ecco l’attimo, uno e indivisibile; replicato all’infinito ma drammaticamente perso al di fuori di quel fotogramma. I tuoi, in fondo, sono appunti in attesa di una rivelazione senza passato né futuro; è il presente che ci mostri, quello che trasfigura la durata per la sua necessità di esistere, il suo istinto della sopravvivenza attraverso la macchina da presa. Pure i muri crollano sotto la tua Bolex, mentre ancora dispensavi (video)lettere per amici dispersi in tutto il globo, mentre ancora scrivevi poesie (e) di cinema.

The real history of cinema is invisible history: history of friends getting together, doing the thing they love. For us, the cinema is beginning with every new buzz of the projector, with every new buzz of our cameras. With every new buzz of our cameras, our hearts jump forward my friends. – Perché esiste un invisibile, ed è proprio quello che va filmato. Nell’’esigenza di ribadire che il cinema è qualcosa che si vive, che risponde a una sua innata materialità, che prescinde dalle astrazioni “artistiche” e linguistiche. Un qualcosa ancora sconosciuto e disturbante che si colloca fermamente nella concretezza dell’’esserci (stati), del maneggiare momenti, eventi, attese, sentimenti del momento cui si appartiene. Viviamo sempre più nell’invisibile di cosa che è oltre alla nostra comprensione, e dobbiamo tornare ai tuoi fiocchi di neve (come ai tuoi fiori, come alle tue parole di una semplicità poetica abbagliante) per essere certi di aver ancora una realtà in cui spaziare, sognare e forse amare. Una finestra (proprio come quella su cui, con un amico, vidi per l’ultima volta i tuoi fotogrammi) il cui panorama non conosce confini e limiti, dalla strada sotto casa alla landa desolata, e noi figure di quella suggestione fatta paesaggio. Guardare i tuoi film, oggi ancora di più, spaventa perché ci mostrano come nessun altro la nostra fragilità; siamo nudi e inermi nella nostra finitezza, terrorizzati da perdere ogni frammento che pensiamo ci possa appartenere. Ma la mia è forse codardia. Nella bellezza accecante e spesso sconvolgente di tutto quell’invisibile strappato al caos che ci hai sempre mostrato, resiste la salvezza del mondo, e resisterà fino a quando il nostro sguardo sarà ancora capace di abbracciarla incondizionatamente. Rimarrà, anche quando la pellicola sarà estinta e il cinema un puro esercizio del nulla, rimarrà perché quella bellezza oramai appartiene alla nostra anima come se tutto quel filmare fosse anche parte di noi, del nostro destino che ci lega al pianeta, dalla nostra infanzia fino alla nostra morte. “Cari amici. Jonas è mancato con tranquillità e in pace questa mattina. A casa, insieme alla sua famiglia. Sarà molto rimpianto ma la sua luce continua a brillare”. Perché il tuo oltrepassare questo mondo mostra, una volta di più, la tua immortalità, l’essenza del tuo spirito. Quella dei giganti, sulle cui spalle saliamo ancora per poter guardare con una prospettiva inesplorata. E ancora lo faremo, per sempre, fino a quando sarà a noi concessa la (tua) luce. Perché «Siamo apparsi, con certezza, e questo basta» (Walt Whitman). Grazie di tutto.

Erik Negro

P.s. 1] Testo tratto da: “Anti-100 Years of Cinema Manifesto” di Jonas Mekas (Parigi, 11 Febbraio 1996). Dedicato dall’autore a: Viking Eggeling, Germaine Dulac, Jean Epstein, Fernand Leger, Dmitri Kirsanoff, Marcel Duchamp, Hans Richter, Luis Bunuel, Man Ray, Cavalcanti, Jean Cocteau, and Maya Deren, and Sidney Peterson, and Kenneth Anger, Gregory Markopoulos, Stan Brakhage, Marie Menken, Bruce Baillie, Francis Lee, Harry Smith and Jack Smith and Ken Jacobs, Ernie Gehr, Ron Rice, Michael Snow, Joseph Cornell, Peter Kubelka, Hollis Frampton and Barbara Rubin, Paul Sharits, Robert Beavers, Christopher McLaine, and Kurt Kren, Robert Breer, Dore O, Isidore Isou, Antonio De Bernardi, Maurice Lemaitre, and Bruce Conner, and Klaus Wyborny, Boris Lehman, Bruce Elder, Taka Iimura, Abigail Child, Andrew Noren (e molti altri che nel centenario del cinema hanno mostrato, o continuano a mostrare, che esso possa davvero essere altro).
2] Riflessioni e spunti tratti da SCENE DI VITA, scritto di Rinaldo Censi (per FilmTv) in occasione del 95esimo compleanno di Mekas.
3] Fotogrammi tratti da: “Lost, Lost, Lost” (1976), “Williamsburg, Brooklyn” (1950–2003), “This Side of Paradise” (1999), “Holy Fools” (Ken Jacobs, Stan & Kate Brakhage; 2012), “Walden (Diaries, Notes, and Sketches)” (1969).

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