29 Febbraio 2020 -

DAU. NATASHA (2020)
di Ilya Khrzhanovsky e Jekaterina Oertel

Non può in alcun modo essere guardato solo come un film, DAU. Natasha. È solo il primo e già inestimabile tassello di un mosaico enormemente più ampio e ambizioso, che a sua volta è prima di tutto un esperimento sociale dalla radicalità e dalla grandezza teorica talmente inusitate che persino il suo ideatore Ilya Khrzhanovsky ne ha per lungo tempo perso il controllo e la salute mentale. Un qualcosa di mai visto su uno schermo cinematografico perché si spinge ben oltre lo schermo cinematografico e il semplice concetto di finzione, innestato in un progetto mastodontico e consapevolmente pericolosissimo che, fra il 2009 e il 2011, ha ricostruito per tre anni la realtà dell’autoritarismo staliniano per andare scandagliare e a fissare su oltre 740 ore di girato in pellicola 35mm la verità assoluta delle più estreme emozioni dell’umano. Tre anni tutti insieme innestati senza quasi mai uscirne in un processo di creazione artistica collettiva, fra centinaia di (non) attori che mantengono il proprio vero nome e la propria personalità, matematici, filosofi, artisti, scienziati, musicisti e teologi, tecnici, dottori, (sempre più) palestrati neonazisti e necessarie maestranze, volontariamente rinchiusi – o forse sarebbe meglio dire deportati – in una città/set nella quale non semplicemente interpretare, ma essere il proprio personaggio, viverlo fino in fondo, 24 ore su 24, e progressivamente svilupparlo e modificarlo (da cameriera a moglie, oppure da spia del KGB a direttore dell’Istituto) lungo i trent’anni dell’arco temporale del progetto DAU. Abbandonando, o per lo meno traslando all’interno del mondo DAU, ogni tipo di vita quotidiana per trovare la propria più intima natura di essere umano, immersi in una realtà storica rievocata in ogni sua più atroce stortura, in ogni sua malvagia piramide sociale, in ogni sua profondissima e iniqua violenza. Una realtà di scienza, filosofia, medicina, economia, ma soprattutto tensione, traumi, attrazioni, rancori, soprusi e derive di un regime, in cui improvvisare così a lungo e così intensamente su poche linee di trama (in Natasha pochissime, in altri film più funzionali a portare avanti la narrazione complessiva qualcuna in più) da finire per creare e (soprav)vivere (a) situazioni che nessuno sapeva, né gli attori in scena né chi li stava orchestrando, fino a quali punti fisici ed emotivi si sarebbero realmente spinte. Un “vero” The Truman Show di vita, amori, litigi, alcool, sangue, sperma, umiliazioni, dominanze, sottomissioni, sentimenti contrastanti e violenza fisica o psicologica, in cui in qualche modo cambiare dimensione, diventare progressivamente inconsapevoli della natura di finzione e della presenza delle macchine da presa, e semplicemente vivere la propria parte di quel luogo e quel tempo che “il dittatore” Khrzhanovsky, una volta poste le regole, osserva senza alcun filtro nella sua interezza e in tutte le sue progressive degenerazioni, in tutta la sua assoluta verità, in tutta la sua perturbanza inevitabilmente protesa sul limite fra il mostrabile e il non mostrabile, fra il doloroso e il pornografico, fra l’antropologico e il patologico. Giocoforza provocatorio, potente, disturbante, a tratti insostenibile come sa essere insostenibile la natura umana, e proprio per questo così potente, importante, monumentale.

Una sorta di messinscena “ambientale” in un microcosmo-altro, delimitato, rinchiuso e isolato nel suo tuffo all’indietro nel tempo, in cui lasciare gli uomini e le donne, reclusi volontari per prendere parte all’esperimento, paradossalmente liberi di portare avanti “trame” e quotidianità di quelli che sono per ora i quattordici diversi film DAU già pronti e montati, tutti frutto del lavoro collettivo di una grande famiglia, tutti differenti per stile e impostazione a ripercorrere assieme alla Storia anche quella del cinema. Tanto che non è necessario alcun ordine cronologico per mostrarli: ogni lavoro, dalla pura digressione di Natasha primo abbacinante sguardo oltre una cortina di mistero lunga quasi tredici anni alla nettamente maggiore centralità narrativa di Degeneratia, porta sì in qualche modo avanti la trama generale, ma ha totale e indipendente vita a sé. Anche perché la trama, specialmente in DAU. Natasha, è poco più che un MacGuffin, una contestualizzazione funzionale tanto allo studio antropologico che sta alla base del progetto quanto al costante e più o meno profondo confronto fra letterati, scienziati, filosofi, musicisti, sociologi, ex spie del KGB, ciarlatani, pornostar, avanzi di galera e culture differenti che si incontrano e travalicano ogni confine fra messinscena e realtà nel portare avanti uno studio che è anche e forse soprattutto del mettersi in scena, dell’affrontare in altro ambito un sostanziale ruolo di se stessi. Già si era capito molto dalla mostra/installazione performativa tenutasi lo scorso anno a Parigi, con i veri e propri visti al posto dei biglietti, con gli ambienti sovietici e con i più schermi: è lo scienziato Premio Nobel Lev Davidovič Landau, il DAU a cui si ispira Khrzhanovsky. Uno scienziato geniale quanto ambiguo e pericoloso, realmente impegnato fra il 1936 e il 1968 nelle segrete sovietiche nel tentativo di creare l’uomo perfetto, un Übermensch nietzchiano ripulito dell’ideologia nazionalsocialista, un fine letterato, un genio politico e militare, un filosofo, un economo, un instancabile amante, un soldato invincibile. Esattamente dove a Kharkiv sorgeva il suo Istituto di ricerca, Khrzhanovsky ha fatto (ri)costruire la cittadella nella città destinata a diventare il set più grande dell’intera storia del cinema europeo, per poi viverci insieme nelle condizioni degli anni Quaranta-Cinquanta-Sessanta rievocati e continuamente filmati mangiando davvero, ubriacandosi davvero, scopando davvero, esercitando per davvero la propria dialettica e realmente soffrendo le umiliazioni e le sudditanze, fino ai conflitti e alla distruzione fisica in quello che in DAU. Degeneratia sarà il gran finale orwelliano della (non) serie, degli uomini, dei luoghi e di tutto ciò che rappresentano. Ma, prima delle lunghe sessioni di montaggio con cui, con la collaborazione dei singoli co-registi di ogni singolo e totalmente autoconclusivo episodio – Jekaterina Oertel per questo DAU. Natasha giunto con la potenza di una bomba a mano, probabilmente la scelta più coraggiosa di questo primo Chatrian, nel concorso della 70ma Berlinale, Ilya Permyakov per le sei ore di DAU. Degeneratia sempre qui a Berlino fuori concorso, e chissà quanti e quali altri per ciò che auspicabilmente vedremo in futuro in giro per i Festival d’Europa –, trasformare la mostruosa mole di materiale in più film, un Ilya Khrzhanovsky in qualche modo sopraffatto dalla grandezza e dalle pieghe prese dalla sua stessa radicalissima creatura ha avuto bisogno di oltre due anni di ricovero volontario in una clinica psichiatrica per uscire da quella realtà alternativa di cui era assoluto padrone, per liberarsi dei deliri di onnipotenza che, quasi inevitabilmente, ideare e realizzare un simile progetto/esperimento rischia di portare in dote.

Inizialmente DAU sarebbe dovuto semplicemente essere un biopic sulla vita di Lev Landau, e a quanto si dice il DAU. One che narrativamente e temporalmente rappresenterà il primissimo capitolo (in anteprima non definitiva lo scorso anno a Parigi all’interno della mostra, ma di fatto ancora inedito in quello che sarà il suo formato cinematografico) più o meno questo dovrebbe essere. Ma un progetto panartistico-scientifico evidentemente troppo mastodontico per rimanere confinato nei confini di un solo lavoro si è ben presto espanso ed è diventato altro, tanto che in DAU. Natasha il giovane/vecchio scienziato principale protagonista rimane del tutto fuori dal campo, mentre la manciata di macrosequenze che compongono il film (il litigio iniziale e non certo privo né di tensione erotica né di reali dettagli biografici fra le due cameriere, l’esperimento scientifico nella piramide, la festa notturna chiusa dalla nottata di sesso sbronzo e necessariamente non simulato – probabilmente nemmeno esplicitamente richiesta dal regista, ma è successo – fra Natasha e l’astrologo francese Luc Bigé, l’ubriacatura ai limiti del coma etilico volutamente provocata da Natasha alla più giovane Olga, l’interrogatorio di minacce e umiliazioni del KGB con cui obbligare la protagonista a diventare «volontariamente» una spia e la chiosa secca che riprende in maniera ancor più agghiacciante l’inizio e i rapporti di forza dell’homo homini lupus, specialmente quando frustrato dalla sua consapevolezza di essere agnello) rimangono quasi rigorosamente su Natasha, cameriera di mezza età ancora piacente. È lei che, da perfetta penultima ruota del carro, sfoga sull’ultima Olga detta Olya (Shkabarnya, già nota per il suo eccellente apporto al mondo dell’hard amatoriale e per il suo sito di sostanziale prostituzione sul quale era possibile prenotarla per una notte – a tal proposito sarebbe interessante capire, vista la natura e i nove anni di distanza del progetto DAU, se sia arrivata così disinibita sul set forte delle sue esperienze nel porno o se abbia scelto tale strada dopo il ‘trauma’ dei tre anni di Kharkiv, ma la sua evoluzione in DAU in cui diventerà moglie di illuminato economista ammessa a tavole ben più alte della mensa per cui lavora fa propendere per la prima ipotesi di quasi ‘redenzione’) le sue frustrazioni e i suoi dolori. Piace il comando, a Natasha, e proprio per questo sarà per lei ancora più psicologicamente devastante essere violentemente comandata e dover subire i perentori soprusi del KGB. Abusi pesanti, feroci, accerchianti, controversi, umilianti fra domande di cui si sa già la risposta, vestiti strappati e minacce, ma mai – nemmeno in un eticamente rischiosissimo collo di bottiglia che però nell’evitare ogni pornografia della macchina da presa rimane di una violenza puramente psicologica – oltre il limite della gratuità o del sadismo. Un po’ perché DAU. Natasha è un film molto più d’ambiente che di narrazione, uno scarto secondario dal filone principale con cui trascinare lo spettatore nella stessa gabbia soffocante e claustrofobica dei protagonisti/volontari (del film/dell’esperimento) mentre saranno altri episodi a “raccontare” la vicenda ispirata agli esperimenti compiuti al tempo nell’Istituto di Landau, lo stringersi ulteriore del regime, i suoi conflitti interni e il suo inevitabile crollo, e un po’ perché a Khrzhanovsky, come a portare ben al di là delle più estreme conseguenze il “saggio collettivo di recitazione e di regia” già di Cassavetes, nella finzione di questo immane progetto è sempre interessato più di tutto trovare la verità assoluta. La vera paura, la vera tensione, la vera estasi. La vera ubriachezza, il vero sudore, il vero vomito di chi nemmeno fa in tempo ad arrivare al lavandino, la vera imbarazzata fatica maschile quando l’alcool in corpo si porta via troppo sangue e il desiderio sembra non bastare per varcare i limiti fisici. La vera (e proprio per questo fa così ridere) rinuncia a slacciare quel reggiseno che sembra impossibile varcare con tutta quella vodka in corpo e tutti quei vetri sparsi a terra, oppure la vera voce che cambia lungo i sentieri della sbronza fra vette acute e abissi di raucedine mentre il volto diviene progressivamente biancastro e sudaticcio come una cera del Madame Tussauds.

Sono i dettagli, che fanno gridare al miracolo. Sprazzi di vero assoluto, di intima natura umana, di sincerità di emozioni vissute in diretta ben oltre ogni possibilità mai presa in considerazione da Stanislavskij. Particolari che non si possono in alcun modo simulare, non si possono in alcun modo recitare, ma che fanno invece parte dell’osservare la vita mentre accade con i costanti e leggeri movimenti di nervosismo dell’onnipresente macchina a mano, con le rapide ellissi temporali che non spezzano il flusso delle scene, con la fotografia ricca di grigi e penombre di Jürgen Jürges e con la capacità di rimanere costantemente alla giusta distanza, vicini alla protagonista ma mai troppo invasivi. Sono le tensioni e il corteggiarsi, a emergere in un ambiente che è già soffocante e oppressivo prima ancora che entri in scena direttamente il Potere, sono i bicchieri rotti a ogni brindisi, è quella faccia preoccupata di chi dice pure esplicitamente di non poter bere così tanto vino rosso tutto insieme, e invece finisce trangugiando anche quell’ennesimo bicchiere per poi riempirlo ancora. Sono i litigi veri e fisici di capelli tirati e reali spintoni, sono il vero sesso e le vere nudità di personaggi/persone che accettano di mettersi a nudo nel progetto DAU, sono i dialoghi improvvisati che giocano ad addolcire e poi a ferire aprendo la strada allo strabordare dei sentimenti, sono quelle risposte che non tentano in alcun modo di negare la verità, il passato, l’identità, le reali esperienze della vita prima (e a volte pure dopo) i tre anni di clausura ed esperimento sul set. Come Olga Shkabarnya che non si offende in alcun modo per essere chiamata puttana ma semplicemente puntualizza i suoi sedici anni ancora vergine, come i non pochissimi appartenenti al cast che non sono potuti venire a Berlino perché attualmente in carcere per i più disparati e gravi reati, o come Vladimir Azhippo che nella vita è stato realmente un uomo che conduceva gli interrogatori per il KGB, e che non ha la minima difficoltà a rimettere la sua mole corpulenta e sudaticcia al servizio di quei metodi che tanto bene ha conosciuto e tanto spesso ha in passato usato, fra minacce e verbali dettati ai “testimoni”, fra violenze e umiliazioni d’ogni tipo, fra confessioni estorte e aperte bugie ufficiali. Con amanti «gentili» che diventano all’occorrenza dei bruti violentatori se il Potere ha bisogno di fare fuori un astrologo francese troppo occidentale per i suoi gusti, e con “verità” da consegnare agli archivi che nient’altro sono che finzione ancor più paradossali in DAU che parte all’opposto dalla finzione per giungere alla purezza (sporca e appiccicaticcia come i fluidi che scorrono, ma pur sempre pura nella sua impostazione generale) della realtà e del vero. Eppure anche lui, Azhippo, che sarà progressivamente sempre più dittatore, è in realtà vittima della prima dittatura di DAU. La dittatura dell’immagine, che vede tutto, che filma tutto, che restituisce tutto. Che chiede di donare vita, emozioni, fegato, sangue, sperma, vino, vodka, birra, fellatio, vasche da bagno in cui lavarsi o in cui riprendersi, e in cambio restituisce sguardi di una verità inusitata. Un qualcosa, come si diceva, di realmente mai visto (né tanto meno mai tentato) su uno schermo cinematografico, progetto elefantiaco e costosissimo, radicale eppure a suo modo umanissimo, magnetico, vero, opprimente e commovente in due ore e mezza che sembrano venti minuti. Non pochissima stampa qui a Berlino, come quasi inevitabilmente accade con capolavori per natura così divisivi e polarizzanti, ha preferito perdere di vista il progetto generale, la genesi, la contestualizzazione, e vedere DAU. Natasha come il film crudele, sadico e semi-pornografico che – a partire dal ricovero necessario al regista a fine riprese e dai tredici anni complessivi necessari per portarlo a termine – non può in alcun modo essere. Perché la verità è che non ha alcun senso guardare DAU. Natasha come un semplice film, né avrà senso guardare come semplici film gli altri DAU. Si può solo essere ammessi a un qualcosa di immensamente più vasto delle porzioni per ora mostrate, e da lì genuflettersi di fronte al genio folle e cristallino di un autore del quale abbiamo per ora visto pochissimo, ma dal quale sembra già inevitabile avere tutti ancora tanto, tantissimo da imparare.

Marco Romagna

“DAU. Natasha” (2020)
146 min | Drama | Germany / Ukraine / UK / Russia
Regista Ilya Khrzhanovskiy, Jekaterina Oertel
Sceneggiatori Ilya Khrzhanovskiy, Kora Landau-Drobantseva (book)
Attori principali Natalia Berezhnaya, Olga Shkabarnya, Alexandr Bozhik, Alexei Blinov
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