DAL PIANETA DEGLI UMANI (2021), di Giovanni Cioni
C’era una volta una rana in un pozzo. Una kupamunduka. Ella credeva che la sua cisterna fosse il mondo intero e che quella porzione di cielo circoscritta dalle mura del pozzo fosse il limite della realtà. Era Satyajit Ray che ne parlava, nel suo ultimo film Lo straniero. Tuttavia, come spesso accade nel pianeta degli umani, anche un altro uomo, in un altrove assoluto, ascolta e ci traduce una fiaba sentita dalle rane di una cisterna. È Giovanni Cioni, che in prima persona, nel suo meraviglioso Dal Pianeta degli Umani ora al 33mo Trieste Film Festival dopo la prima fuori concorso a Locarno e la vittoria dell’ultimo Festival dei Popoli, ci sussurra questa storia su un dottore, Voronoff, e sul ringiovanimento, su esperimenti di uomini e scimmie, in una villa fiabesca in Riviera. «C’era una volta, a quei tempi, ai nostri tempi. È una fiaba, non è mai successo. È una storia vera» è la frase che più volte ci ripete Cioni, come a voler destrutturare il confine tra realtà e finzione, una volta per tutte, per coloro che ancora farneticano sul cinema del reale, sulle distinzioni tra film e documentario. Ed è proprio dalla Frontiera che Cioni era partito nelle sue ricerche, dalle storie e dalle speranze di quei migranti che ogni giorno affrontano i sentieri di confine per cercare di passare oltre la vecchia vita, per poi da lì ritrovarsi catapultato in un’altra dimensione, in un’altra epoca, in un’altra storia. Siamo negli anni venti del ‘900, nel castello Grimaldi di Ventimiglia. Il dottor Serge Voronoff compie una serie di esperimenti sui testicoli di scimmia con l’obiettivo di impiantarli sugli uomini, nel tentativo di scoprire forse la cura all’invecchiamento, e quindi una tecnica di ringiovanimento, come più volte ribadisce Cioni con il suo adorabile accento toscano. «La vita che non contemplava la morte», la cura per giungere alla giovinezza eterna.
Eppure Voronoff, chirurgo di fama mondiale, stimato da tutti per le sue ricerche appunto ai confini della realtà, raggiunse l’apice della popolarità in quegli anni per poi cadere completamente nell’oblio. Ma quando una storia viene dimenticata allora non è mai successa? È questo che si chiede il regista, che costruisce il film raccontando questa vicenda, attraverso materiale d’archivio sapientemente selezionato e riprese effettuate proprio sui bordi della montagna dove, esattamente sul confine fra Italie e Francia, risiedeva la villa del ringiovanimento. Come Shahrazād, Cioni ci narra una storia narrata dalle rane, la realtà è filtrata dai loro occhi enormi e sporgenti, il loro sguardo è lo sguardo del regista sul mondo, unica possibile verità del film. Dal Pianeta degli Umani in questo senso sembra seguire lo stesso tracciato de Gli Intrepidi, ove tutto si perde (o tutto nasce) dalle acque del mare. Quell’immensità del mare che Cioni dipinge nelle sue inquadrature, catturandone le infinte sfumature cromatiche, i movimenti lenti o convulsi. E se questa volta è meno presente la componente umana così evidente in Non è Sogno o Dal Ritorno, è impossibile comunque non ritrovarne qualche traccia sparsa qui e lì, come la scelta di inquadrare alcuni vestiti abbandonati in un luogo diroccato, conferma dell’umanità di Giovanni Cioni: caratteristica imprescindibile del suo approccio al cinema.
Il ritratto cioniano di Voronoff sembra quasi un’illustrazione di Kay Nielsen e questa storia, con tutte le sue divagazioni, gli interminabili collegamenti, i suoi voli pindarici, potrebbe essere benissimo raccolta in East of the Sun and West of the Moon. Un viaggio di esplorazione in un periodo in cui non si può viaggiare se non nella magia delle fiabe e nella magia dei film. Cioni ci ricorda che il cinema è proprio questo: raccontare una storia per mezzo dell’immagine, anche distorcendola o modificandola. E anche se l’inquadratura non è perfetta, il braccio è libero e rivela la fatica del passo, qui siamo nel mondo cinema e, come nel vecchio west, occorre ricordarlo sempre: «se la leggenda diventa realtà, vince la leggenda».
Brunella De Cola