14 Settembre 2020 -

CITY HALL (2020)
di Frederick Wiseman

Probabilmente la parola chiave per analizzare il cinema di Wiseman, che ormai opera nel documentario da più di mezzo secolo, è proprio questa: “ormai”. “Ormai” è chiaro come l’approccio sintetico del modus operandi dell’autore è ormai circoscritto in una reiterazione sistematica che non fallisce mai nel rivelare una realtà intrinseca nelle cose, “ormai” la direzione in cui va il suo cinema diretto è evidente nella sua chiarezza impersonale da osservatore distaccato ma perennemente curioso, “ormai” è anche palese che lo scheletro delle sue opere è sempre lo stesso, a cambiare è solo l’argomento, e dunque la sfera d’interesse dello spettatore. Per l’appassionato di cinema, la ricerca di qualcosa in Wiseman spesso non appare affatto legato però né alla forma documentaria, che appunto è una ripetizione sostanziale dello stesso stilema, né necessariamente all’argomento, bensì a come il regista riesca sempre ad annullarsi, a creare un modo per vivere una realtà senza che la cinepresa sia necessariamente un filtro, e dunque a fare un cinema in cui le persone appaiono ‘reali’. Partendo dal presupposto che tutto nel cinema può essere considerato secondo parametri tecnici, emotivi e morali, si può dire che sono questi a decretare il grado di ‘verità’ riscontrabile in un’immagine in movimento. Si mente sempre, sia di fronte alla cinepresa che quando la si ha in mano; eppure Wiseman, soprattutto nelle ultime opere in cui raccoglie ore e ore di riprese che inquadrano principalmente persone che svolgono il loro lavoro, riesce a scomparire. City Hall è un film che pare più essere diretto da Boston e dai suoi cittadini che da un anziano direttore d’orchestra che lavora con le immagini, e dunque è popolare e vero in un modo suo e unico, didattico senza didascalie, cinematografico senza vezzi stilistici, gremito di conflitti e discussioni che evidenziano la realtà. Wiseman usa spesso il titolo del film per esplicitare la propria missione: se l’opera si chiama come l’istituzione o il posto stesso su cui il documentario si basa (come National Gallery Monrovia, Indiana) vuol dire che l’impressione provata dal documentarista è di aver costruito un racconto completo, se invece c’è una preposizione (come in At Berkeley In Jackson Heights) la sensazione è quella di un’incompletezza. Cosa dovremo pensare dunque di City Hall, che esce spesso dal municipio titolare vagando e contemplando Boston in una durata di quattro ore e mezza, una delle più coraggiose mai affrontate dall’autore? Che è un lavoro talmente completo da poter superare i propri stessi limiti, o che non si può raccontare il potere senza passare dal popolo che da esso dipende?

Marty Walsh, sindaco di Boston dal 2014, è il protagonista, «il Walsh con più potenzialità cinematografiche dai tempi di Raoul», come ha detto qualcuno al Lido. È il volto di una vita assurda, dalle origini irlandesi per cui ha sofferto episodi di emarginazione al tumore in infanzia fino alla lotta con l’alcolismo, ma soprattutto è rappresenta una spinta per il cambiamento, uno sforzo collettivo di cui è membro integrante, che ha del commovente. Arrivato in municipio l’anno dopo gli attentati alla maratona di Boston, il democratico Walsh esprime in tutto e per tutto la vivacità di un progresso morale-sociale che ci fa vergognare del disimpegno politico nel nostro paese. Tutto è messo in discussione per cercare una soluzione, ognuno ha le sue motivazioni, e il dibattito crea dialettica, mostra la ricerca della giustizia più che la sua attuazione, e dunque l’umanità della città – non più un popolo, ma un luogo che vive grazie alla fatica degli esseri umani. Ma soprattutto, Walsh è Boston stessa, è un fan sfegatato della squadra di baseball della città («I Red Sox tengono su il morale», dice indossandone la maglietta), fa commuovere i veterani e si dedica quotidianamente all’ascolto individuale dei bisogni dei cittadini, osserva la città dal suo ufficio e si allea con gli immigrati mediorientali, in qualità di ‘dipendente pubblico’, per capire come aiutarli al meglio dopo il Muslim Ban imposto da Trump. Al di fuori di quello che può sembrare (ma non è mai) una sorta di propaganda, quello che si vede di Walsh è sì la maschera ma anche la verità pratica e lavorativa: quando si riprendono persone che lavorano, è difficile che entri in scena una recitazione o una falsità realmente costruita, perché l’impegno che vien fuori di fronte alla cinepresa più che quello di proporsi all’immagine è quello di fare bene il proprio mestiere, dimostrare qual è la propria raison d’être come a dover (o voler) implicare il ruolo che occupano anche e soprattutto al di fuori delle riprese del documentario. Si vedono per esempio matrimoni e celebrazioni sportive, mense dei poveri e gestori di rifugi per senzatetto che si organizzano per aprirne uno esclusivamente per i giovani, tritarifiuti e processi di stesura dell’asfalto, strade, macchine, gatti che passano, musicisti di strada e lezioni sulla disparità salariale tra i sessi al Roxbury Community College. C’è la polizia di Boston, il dipartimento cittadino più antico degli Stati Uniti, prima delle controversie per frode e violenza venuti fuori durante le rivolte di Black Lives Matter quest’anno, e persino due ufficiali che cantano l’inno americano. Ci sono i monologhi dei veterani sulla sopravvivenza e sulla fratellanza, sui fucili firmati dagli altri soldati e sul peso della memoria. C’è una lunga discussione sull’apertura di un negozio di cannabis, che si concentra sulla sicurezza stradale più che, come sarebbe scontato per esempio nel nostro paese, sull’effetto della coltura e della distribuzione di marijuana ai giovani. Ci sono il Capodanno cinese e il presidente della sede locale di NAACP (National Association for the Advancement of Colored People), che dice «Se le persone conoscessero la Storia riconoscerebbero il bene e il male», che sembra un po’ la frase-missione di questo tipo di documentari, che incapsulano senza giudizio le azioni e le reazioni che cambiano nel tempo ma che sempre ci aiutano a capire cos’è, quest’uomo animale sociale, in tutto e per tutto.

Wiseman non segue una sceneggiatura con un percorso (che era il punto forte, per esempio, di At Berkeley), ma si ferma a portare tutto in scena in ordine cronologico, seguendo le stagioni fino alla fine dell’inverno, con il culmine, nel finale, in un discorso di Walsh che dimostra la forza e l’importanza di quello che si è visto, anche solo con una frase-traguardo sulla diminuzione della disoccupazione: «Boston, negli ultimi 5 anni, è diventata la città in cui è più facile trovare lavoro al mondo». Qua il regista applica uno sguardo analogo a quello dei film più recenti, quasi automatizzato nell’imperfezione formale che diventa precisione di contenuto, ma l’ammasso di situazioni umane ricorda quasi più Welfare (1975) che In Jackson Heights, perché tutto quello che è inquadrato è un impegno, una lotta, e alla fine l’esperienza è resa valida non dall’occhio del regista ma dalla ricchezza dei volti, delle azioni, delle storie da incapsulare così nella Storia. Nei momenti più movimentati, come quando la cinepresa segue il lavoro degli operai, ci sono lunghe sfocature e dettagli imprecisi di oggetti, che rendono la documentazione più vaga ma esplicitano l’atto del cineasta in quanto “curioso” per definizione, «uomo con la macchina da presa» che si intrufola nella realtà ove può. Se lo dicono tra di loro anche i bostoniani, nel dibattito su come aiutare i tossicodipendenti, dicendo che lo storytelling orale è quello che più può creare ausilio e riferimenti morali – alla fine City Hall sembra quello, uno storytelling, anche lineare per quanto sparso ma, appunto, diretto, per aiutare a capire. Wiseman, l’uomo saggio, che filma, con una contemplazione allo stato brado che non riflette sull’arte del contemplare ma osserva meramente la società umana, persone che sembrano manifestazioni fisiche dei ruoli istituzionali che mandano avanti la vita civile bostoniana. Il discorso non è esistenziale, è civico, umanitario, reale. Non c’è neanche spazio per l’esistenzialismo, che pur permeava in modo magnifico l’atto finale di Monrovia, Indiana, e alla fine cosa rimane? “Ormai” rimangono solo le strade di Boston: l’acqua che scorre, la notte che arriva.

Nicola Settis

“City Hall” (2020)
272 min | Documentary | USA
Regista Frederick Wiseman
Sceneggiatori N/A
Attori principali Marty Walsh
IMDb Rating N/A

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