12 Agosto 2016 -

BY THE TIME IT GETS DARK (2016)
di Anocha Suwichakornpong

Nel 2009, Mundane History di Anocha Suwichakornpong stupisce gli schermi di Rotterdam e vince il Tiger Award. Primo, illuminante lungometraggio d’esordio di un’autrice thailandese all’epoca trentatreenne, Mundane History è stato il primo film thailandese ad avere il divieto ai minori di 20 anni per una scena di nudo integrale maschile e masturbazione. Ma, a leggere la trama e soprattutto a vederne le immagini, il film risulta assolutamente lontano da quello che ci si può immaginare sapendo del divieto: ritratto di un’amicizia tra paziente e infermiere, il film cominciava con toni e ritmi tipici del recente cinema thailandese, ma progressivamente si tramutava in un viaggio misticheggiante tra post-rock e cieli stellati, culminando in un finale devastante che mischiava psichedelia e documentarismo ospedaliero. Nel 2016, By the time it gets dark (titolo originale: Dao Khanong) è tra le proiezioni più controverse del concorso di Locarno. La gente esce dalla sala, qualcuno fischia con disprezzo, altri fanno standing ovation; fuori dalla sala si sentono interpretazioni serie e battute nella stessa quantità. E il film è in effetti discutibile, probabilmente, nella forma e nella rappresentazione manieristiche di un gioco metacinematografico a metà tra Holy Motors (2012) e A spell to ward off the darkness (2013); ma l’intensità emotiva e la stratificazione sottocutanea del cinema della Suwichakornpong sconfiggono questi inevitabili dubbi regalando una delle visioni più intense dell’intero festival.

La premessa è stata esplicitata dalla regista al q&a appena dopo il film, anche se era parzialmente evidente già dal prologo del film: nel 1976, anno di nascita dell’autrice, successe un fatto vergognoso nella Storia della Thailandia, raramente rammentato nei testi di Storia del paese, ovvero il massacro dell’Università di Thammasat del 6 ottobre, in cui più di un centinaio di studenti manifestanti sono stati assassinati dalla polizia reale thailandese, sotto il regime militare di Thanom Kittikachorn. Il film comincia con la rappresentazione plastificata e irreale del massacro: i militari si mettono volutamente in posa, aspettano di essere catturati in uno scatto, e anche i corpi degli studenti che stanno per essere uccisi rimangono per terra e sembrano seguire degli ordini da parte dei fotografi. La realtà è, dunque, già compromessa; lo sguardo cinematografico può seguire più la creazione della finzione che la finzione stessa, e si intende anche la finzione che in realtà riprende tutto dalla Storia. Mentre il succitato Holy Motors mostrava come lo “sguardo cieco” di Leos Carax potesse unire vari progetti mai eseguiti grazie alle possibilità del cinema, By the time it gets dark è uno sguardo più oscuro e pessimista, non tanto sulla possibilità di unire i film, quanto sulla frenetica impossibilità di farli. Già la Storia si è piegata ai voleri enfatici del cinema; poi, vi si piega anche il metacinema, con la rappresentazione di una giovane alterego della regista che si trova a dialogare in varie sessioni con un’anziana che negli anni ’70 lottava e fu costretta a scappare dopo il massacro di Thammasa, per poter fare un film sulla sua vita. E un’ideale scena di questo film si vede, ma scompare presto, sostituita di nuovo da questo melanconico, buio, ucronico making-of di un making-of. Ma anche questo film non esiste, lo sguardo della Suwichakornpong non riesce a fermarsi alla visione del dialogo e del confronto, e ciò accade quando una cameriera suggerisce alla ex-militante di scrivere ella stessa la sceneggiatura: il momento di crisi uccide la sceneggiatura sulla militanza e sull’esilio, portando la regista a perdere sé stessa nei boschi e a non ritrovarsi forse più. Anche questo è un film impossibile. Si segue la storia della cameriera, che per lavoro va a recuperare dei funghi – con un sottotesto in realtà banale e volgare legato ai funghi allucinogeni, presente sia in una scena onirica sia in una breve vignetta che presenta una scenetta dal Vojage dans la lune (1902) di Méliès, citazione a metà fra l’omaggio metacinefilo e una ricontestualizzazione ai limiti del blasfemo, in cui i funghi hanno un ruolo prominente. Ma anche questa non è che una scusa per spostarsi su di un altro progetto cinematografico (il documentario sulla raccolta e la distribuzione dei funghi), e poi su di un altro (seguire la cameriera, solitaria e a disagio con la propria vita familiare, alla ricerca costante di un lavoro più stimolante) e poi su di un altro ancora (la relazione tra un attore e un’attrice), un altro ancora (una re-visione della regista che deve fare il film sulla militante, con cast cambiato ma situazione praticamente identica), un altro ancora (con protagonista una giovane monaca buddhista).

L’immagine, dunque, collassa più volte su sé stessa, con qualche (necessaria!) lungaggine, intrappolando i propri personaggi nella triste e lenta contemplazione della loro condizione effimera, con uno sguardo simile a quello del connazionale Apichatpong Weerasethakul — ma, secondo la regista, la sua influenza è probabilmente inconscia. Le vite di questa rosa di personaggi sono parabole interrotte, non solo nella narrazione ma anche nel limite tra realtà e finzione, che poi diventa un limite tra immagine definita e luce o buio. Che sia questa la maniera con cui il cinema di Suwichakornpong combatte? Non si combatte più come negli anni ’70 urlando e attaccando striscioni, bensì eliminando tutto, anzi eliminandosi passo dopo passo, immagine dopo immagine, fino a distruggere ogni via di fuga, fino a inquadrare, di fatto, il niente di una solitudine meccanica. Non è neanche più una questione di illusione cinematografica dimostrata come magia spirituale (cosa presente più volte nel cinema di Weerasethakul), perché quando la regista decide di dedicarsi ad un videodiario parlando delle sue esperienze con la telecinesi, non si muove nulla all’interno dell’inquadratura, ma la macchina da presa, in teoria posta su di un treppiede, si sposta, come se fosse lo sguardo che si muove (e che si annulla) e non l’oggetto della finzione, o il personaggio; come se la telecinesi e la magia della narrazione si attuassero solo fuori dalla vita, fuori dalla narrazione, fuori dalla realtà cinematografica, solo nello sguardo. Cosa che accade in maniera più esplicita anche nel videoclip pop con protagonista l’attore che appare più avanti nel film: lui continua a muovere le palpebre seguendo la canzone, e dunque il videoclip rimane un videoclip, ma la coreografia kitsch tipica del videoclip è rappresentata non come un gioco scenografico bensì come il making of di quel gioco scenografico.

Il film si conclude con una scena destinata a rimanere nell’immaginario del metacinema moderno, riprendendo un po’ 11 minuti (2015) di Skolimowski ma trasformando quella che lì era pura destrutturazione dell’immagine (con un de-zoom digitalizzato paranoico e già iconico) in una sorta di autodistruzione ancor più consapevole e non priva di una sorta di (plastica) speranza. L’immagine si spixela progressivamente a ritmo di musica techno trasformandosi in una non-immagine, la trama diventa non-trama, lo stile diventa non-stile, tutto si riduce all’osso di un futuro che necessariamente scompare. Ma qualcosa ricomprare: un’immagine in pellicola, della natura. La pellicola e la natura rimangono (a differenza del digitale), ma rimangono modificati con una color correction perché l’illusione vive, il cinema vive, anche quando muore; perché non smetteremo mai di guardare oltre il varco anche quando il varco non sarà evidente, o anche quando oltre il varco non ci sarà più niente.

Nicola Settis

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