6 Settembre 2019 -

BLANCO EN BLANCO (2019)
di Théo Court

«Sono una parte di quella forza che vuole sempre il Male ed opera sempre il Bene»
Faust, Goethe

Le opere importanti che in questi ultimi anni hanno indagato gli effetti nefasti del colonialismo di stampo europeo in Sud-America sono parecchie, a cominciare da Zama di Lucrecia Martel che proprio qui a Venezia ebbe la prima nel 2017 passando per la Colombia di Ciro Guerra (El abrazo del serpiente, 2015), il Brasile di Marcelo Gomes (Joaquim, 2017) e la Patagonia di Niles Attallah (Rey, 2017), in cui il regista cileno esplora la repressione del governo nei confronti delle popolazioni indigene. Théo Court compie un’operazione simile con Blanco en Blanco, in concorso nella sezione Orizzonti alla 76esima Mostra del cinema di Venezia. Mentre Attallah per Rey lavora sugli scritti dell’epoca, raccontando lo sterminio del popolo Mapuche, Court parte da un documento di natura diversa: una fotografia che ritrae alcuni dei carnefici che massacrarono il popolo Selkman. Pedro è il protagonista del film, interpretato da Alfredo Castro, un mediocre fotografo arrivato in Patagonia a immortalare le nozze di Mr. Porter, un proprietario terriero assenteista e onnipotente, e costretto a restarvi per contribuire alla costruzione di nuovi insediamenti. Su questo impianto narrativo Théo Court costruisce un’opera maestosa, in cui i latifondi sconfinati della Terra del Fuoco sono oggetto di conquista gretta e violenta da parte dei coloni occidentali che hanno dalla loro armi e religione, così simile alla spedizioni ottocentesche di Lewis e Clark o a quelle del fotografo Timothy O’Sullivan, che fu finanziata da fondi federali americani con l’obiettivo di rappresentare il West come un posto libero, pieno di risorse naturali e pronto per essere occupato.
Il flusso di pensiero che scaturisce dalla visione di un’opera così matura e potente per un regista al secondo lungometraggio potrebbe prendere destinazioni infinite, e si divide in due correnti che scorrono nell’infinità di questo tempo: la storia e l’arte. La questione che si ripete è sempre la stessa, può la maravilla dell’arte giustificare il male assoluto? Il cinema diventa catalogo di usi e abusi del potere, dell’immagine e del potere dell’immagine. La riflessione fatta da Godard nelle sue storie del cinema su come la fotografia venne inventata dai borghesi come strumento di oppressione delle classi inferiori, qui si incarna paradossalmente in Mr. Porter, un potere che può vedere ma non può vedersi. Tutto il film è un ragionamento sulla fabbricazione delle immagini, di quanto tempo queste immagini hanno bisogno per esistere, per quanto tempo esisteranno e con quale significato. I riferimenti artistici dei quali Court si serve sono vasti come le lande che ritrae, le rozze dicotomie che da sempre accompagnano la nascita di fenomeni visivi sconvolgenti come la pittura (pre vs.post rinascimento), la fotografia (paesaggio vs. ritratto) e il cinema (documentario vs. finzione) in Blanco en Blanco esplodono come i costanti schioppi di fucile che punteggiano tutto il film, spesso fuori campo.

Le bambine di Lewis Carroll, i colori slavati e acidi di un vecchio western in colorscope e le fiammelle alle finestre dell’impressionismo di Renoir liberano la materia cinematografica del regista cileno dall’austerità formale favorita dai desolati paesaggi del sud del mondo, e la bellezza pervertita da un erotismo intriso di morte dal sapore faustiano riempie lo schermo con piani direttamente proporzionali alla durata dell’esposizione di una fotografia ottocentesca. L’ambiguità del mezzo artistico però non inquina il territorio morale in cui si muove la macchina da presa di Théo Court, al quale sembra altrettanto necessario utilizzare gli stessi elementi di bellezza e simmetria per raccontare la nascita del mito del progresso occidentale e ribaltarne le premesse. Una possibile specularità tra il regista e personaggio principale è perciò fuori questione: ogni piano di Court trasuda di dolore per la tragedia umana, concentrandovi tutta la meschinità di un fin-de-siècle illuminista e vile fatto di uomini reali come Julius Popper, l’ingegnere rumeno che fu autore delle cacce agli indigeni di Patagonia, o immaginari come John, il personaggio crudo e sadico interpretato da Lars Rudolph.
Il mestiere del cinema viene messo in ridicolo dalla figura aquilina di Alfredo Castro che ripete il mantra «no se mueven», come a voler fissare il tempo in un’eternità mefistofèlica, un vita eterna fatta di remake dei remake. Pedro è l’anima morta dell’industria contemporanea, una macchina di produzione di immagini vuote, bianco su bianco, sempre più autoreferenziale. E proprio in questo sta l’astuzia del film: nel riappropriarsi del tempo senza indulgere nel manierismo, rischiando dei piani dalla durata superiore alla media dei prodotti festivalieri in un evidente desiderio di autodeterminazione.
E se i vari Zama, Rey, El Abrazo del SerpienteJoaquim fanno parte di un continuo dialogo interno alla cinematografia sud-americana, Blanco en Blanco la conferma come una delle più vive nel panorama internazionale, proponendo una narrazione alternativa a quella egemonica occidentale e spostandone l’asse verso un altrove da ricostruire e immaginare, in favore di una memoria storica da opporre al potere delle immagini, e quindi più in generale al Potere in ogni sua più atterrente declinazione.

Roberto Oggiano

“White on White” (2019)
100 min | Drama | Spain / Chile / France / Germany
Regista Théo Court
Sceneggiatori Théo Court, Samuel M. Delgado
Attori principali Alfredo Castro, Lars Rudolph, David Pantaleón, Lola Rubio
IMDb Rating N/A

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