Davide Stanzione

Nato a Casa Santa Erice nel 1993, ma solo perché il comune di Trapani non dispone di un ospedale pubblico nel suo territorio, si lascia alle spalle le intemperanze delle elementari e un’infanzia da piccola peste ritagliandosi un’adolescenza dove il cinema è presenza costante, panacea di molti se non tutti i mali, scoperta entusiasmante, avventura irrinunciabile. Un vero e proprio burden of dreams, un “fardello di sogni”, per citare il documentario di Herzog sul suo Fitzcarraldo, uno dei tanti film che non a caso gli hanno cambiato la vita. Ne sanno qualcosa i compagni del liceo, costretti a ricevere improbabili catene di messaggi serali con recensioni e consigli per la programmazione televisiva scritti di suo pugno, tra l’altro quando gli sms si pagavano e WhatsApp era una prospettiva avveniristica quanto un nuovo film di Star Wars. Quel meraviglioso fardello se lo porta appresso ben oltre la maturità al Liceo Classico Leonardo Ximenes, con tanto di tesina finale dedicata a Rainer Werner Fassbinder: un cortocircuito degno quasi del Liceo Marilyn Monroe di Bianca di Moretti, col quale condivide la convinzione che le merendine di quando era bambino, i pomeriggi di maggio, il brodo di pollo quando era malato e gli ultimi giorni di scuola prima delle vacanze non torneranno più. Ma se è per questo neanche le notti ericine dei suoi quindici anni, le partitelle alla scuola calcio di quartiere (quando il Trapani era in Eccellenza, mica in B…), la Juventus di Pavel Nedved, i film dei fratelli Coen, Alfred Hitchcock e Gus Van Sant visti e rivisti dopo la scuola, le afose giornate estive da sei, sette film a botta intervallati solo dalla granita artigianale della nonna fatta ghiacciare in frigorifero la notte prima, un privilegio che in nessun festival del mondo ha più trovato e troverà mai, ingurgitando frettolosamente ogni schifezza possibile tra una proiezione e l’altra. Una nostalgia, quella della granita (e non solo), rafforzata dalla prosaica vita da fuorisede a Roma, dove si iscrive al DAMS di Roma Tre apprestandosi a concludere la triennale con una tesi su INLAND EMPIRE di David Lynch, sua magnifica ossessione, massimo esempio di morte al lavoro che il cinema, secondo lui, abbia mai prodotto. Scrivere di cinema è il suo filtro sul mondo privilegiato e il suo orizzonte quotidiano, tra collaborazioni, articoli, infinite note a pie’ di pagina, anteprime stampa, hard disk esterni che si moltiplicano come furetti, scartoffie selvagge, ritagli di giornale, passeggiate senza meta: in mezzo tanti libri, semplicemente quanti più possibile, e una valanga di album musicali dai quali si lascia sommergere fino ad affondare, alla ricerca di meravigliosi naufragi, orizzonti non battuti e amori solo sognati (come diceva Pasolini alla fine del Decameron: Perché realizzare un’opera quando è bello sognarla soltanto?). È fermamente convinto che non si possa vivere senza Cassavetes e Altman, ma nemmeno senza Philip Roth, Olivier Assayas e i suoi Ciprì e Maresco. Vorrebbe che la vita fosse un elettrizzante e avventuroso film di Werner Herzog, ma in fondo si accontenta anche della sua: un film dopo l’altro, fino al prossimo innamoramento. Il più delle volte anche solo per vedere di nascosto l’effetto che fa. Oh yeah.