AU CIMETIÈRE DE LA PELLICULE (2023), di Thierno Souleymane Diallo
Non cammina scalzo perché il microfono che spunta dal suo zaino non catturi il rumore dei suoi passi, l’esordiente guineano Thierno Souleymane Diallo. La sua non è una scelta dettata dal pragmatismo per essere più pulito e silenzioso nel lavoro come documentarista, così come non c’entra nulla la potenziale spiritualità del cercare di sentire e percepire chissà cosa nel contatto con il terreno. Il motivo del suo vagare rigorosamente a piedi nudi è una scelta simbolica e profondamente politica, è il suo modo per puntare i fari sulla povertà e sulle priorità di un Paese che, dopo esserne stato assoluto pioniere africano, ha smesso ormai da decenni di investire tempo e risorse nel cinema, non producendone di nuovo e finendo pure per rimuovere quello del passato, lasciando che l’incuria facesse andare progressivamente in rovina ogni cabina di proiezione del territorio e ogni archivio cinetecario. Un Paese capace magari di concedere ancora, come nel suo caso, le borse di studio per studiare la pratica cinematografica, ma che poi abbandona gli aspiranti cineasti in una realtà senza più produzioni, senza più laboratori, senza più luoghi in cui mostrare i loro lavori. È per questo che la rinuncia alle scarpe è per Thierno Souleymane Diallo, nella sua opera prima Au Cimetière de la Pellicule, una ben precisa forma di resistenza, è la dimostrazione della necessità di ricambiare le priorità nazionali e ridiscutere cosa sia utile e cosa sia superfluo, attraverso la scelta di abbandonare ciò di cui può fare a meno dopo avere investito tutto quello che aveva nell’acquisto delle attrezzature audio e video per poter girare e per portare avanti il suo sogno di restituire un cinema alla nazione. In un viaggio, appunto, fino “al cimitero del cinema” del titolo e poi oltre, fino alla speranza di un nuovo inizio, fino ai bambini da fare appassionare giocando insieme a fare un film da proiettare nella piazza del villaggio, fino alla nascita di una passione da condividere di nuovo, oggi come ieri.
Fino a farcela comunque, anche senza fondi e senza aiuti, anche con gli oggetti di scena finti come armi giocattolo, anche se con una macchina da presa di cartone. Ma in compenso con una ben precisa idea, sospesa da qualche parte fra il documentario e la meta-messa in scena del fare un documentario. Con lo sguardo della Xdcam dello stesso Diallo che diventa la sua soggettiva mentre si lascia pedinare da una macchina da presa principale oggettiva e invisibile, con le interviste e i vecchi ruderi polverosi che un tempo erano cabine, sale e magazzini, con le sospensioni contemplative sulla nebbia che sale dal fiume e con quelle di pura finzione da costruire tutti insieme per rivedersi sullo schermo. Una volontà di far rinascere un cinema nazionale che non può che partire dalla ricerca dei ventitré minuti di Mouramani, leggendario primo film africano di sempre realizzato in Guinea nel 1953 da Mamadou Touré e oggi ritenuto perduto, lungo un cammino solitario attraverso la morte, delle sale e delle pellicole, nel quale ripetutamente fermarsi a intercettare e a soffiare sul fuoco degli ultimi barlumi di possibile vita. Chi fa(ceva) film e chi li ama(va) da spettatore assiduo, chi li sonorizza(va) e chi li censura(va), chi tuttora li insegna e chi tuttora li studia, chi non vede l’ora di partecipare al gioco di mettersi in scena e chi – forse – ha realmente visto il corto di Touré ma non se lo ricorda, perso in una memoria ormai antica, corrotta dal tempo e dalle altre visioni, a sua volta confusa dalle differenze nella sinossi fra le fonti scritte del tempo inglesi e francesi. Tanto che a un certo punto verrà pure il dubbio che il film che sta cercando sia una creatura mitologica mai realmente esistita, a Thierno Souleymane Diallo. Ma è solo una battuta, un momento di frustrazione, dopo cui rimettersi subito in cammino e girare in lungo e in largo il Paese da Kouroussa a Kankan, villaggio per villaggio, fotogramma per fotogramma, vecchio biglietto che ancora emerge dalla polvere per vecchio biglietto che ancora emerge dalla polvere.
Era Ahmed Sékou Touré, dittatore in carica ininterrottamente dal 1958 all’84 della sua morte, a spingere perché la Guinea investisse nella cinematografia. Una cinematografia di regime, s’intende, in cui ogni minima deviazione non perfettamente allineata al pensiero del Partito unico veniva preventivamente tagliata dalle severissime commissioni di censura. Ma pur sempre una cinematografia fiorente, fatta di storie e di luoghi, di volti e di immaginari, di voci e di ricordi in diretta da quei tempi, progressivamente andata in fallimento fino quasi a sparire anche dalla memoria: nessuno fa più cinema, e nessuno ha avuto cura nel preservare quello vecchio, destinato a sparire nel fisiologico deterioramento delle pellicole malconservate fino alla sindrome acetica o peggio alla polvere, al completo disgregarsi, alla conclusione del ciclo della vita della materia. O magari alle fiamme di un rogo, unica strada per un intero villaggio esasperato, qualche anno dopo la chiusura del cinema che tanto aveva amato e l’abbandono del suo deposito delle pellicole sempre più deteriorate sotto al sole rovente, dai miasmi che le ‘pizze’ continuavano a emanare sempre più forti. Disperdendo nell’incuria e nelle fiamme la memoria storica e culturale che è inevitabilmente intrinseca di ogni cinematografia, come documento attraverso cui (ri)vedere il passato e tentare di leggere a posteriori quei luoghi e quei tempi, quelle sensibilità e quei messaggi veicolati nei racconti. È per questo che Thierno Souleymane Diallo dedica il suo esordio, ospitato alla 73ma Berlinale in Panorama Dokumente, alla ricerca del punto di origine del cinema guineano e africano, alla riappropriazione culturale del sommerso, come se non si potesse pensare a una nuova genesi senza prima ritornare alla genesi. A costo di inseguirla a piedi e a dorso d’asino per tutto il Paese e poi fino agli archivi di Francia, o magari a costo di reimmaginarla e rimetterla in scena, restituendo in qualche modo alla Storia almeno una versione alternativa, almeno una prova dell’esistenza, almeno un segno di rispetto e di gratitudine. Fra i ricordi commossi delle proiezioni africane bruscamente terminate (in tragedia) a metà anni Novanta e le sale ancora occupate e ribelli – «che senso ha guardare un film rivoluzionario su un MacBook?» – di Parigi, fra i vecchi registi di casa e gli storici del cinema in trasferta, fra i macchinari rubati dal magazzino del vecchio laboratorio di Kankan (ormai cimitero di vecchie macchine da presa, stampanti ottiche, luci e moviole) per estrarre l’alluminio con cui fare pentole e i volantinaggi parigini con le recensioni originali degli anni Cinquanta di Mouramani, fra le poche bobine (a volte cinesi, a volte porno, ma quasi mai locali) ancora abbandonate nella polvere della Guinea e gli sterminati archivi a temperatura controllata del CNC in cui c’è quasi tutto, ma non proprio tutto. Fra il pezzo di cartone in cui immaginare una macchina da presa a grandezza naturale là dove quella vera non esiste (più/ancora) e quello da forgiare a gilet per portare in giro sulla propria stessa pelle la scheda del film perduto di Mamadou Touré. Fino a ridare in qualche modo alla Guinea e al mondo la fedeltà e l’abnegazione anticolonialista quel cane che salva due volte il padrone, prima vivendo e poi morendo per lui. La fiaba di Mouramani, la fiaba di Au Cimetière de la Pellicule, la fiaba del cinema, che non si ferma mai. Con o senza scarpe.
Marco Romagna