ALMOST THERE (2016), di Jacqueline Zünd

« But if you could just see the beauty / These things I could never describe / These pleasures a wayward distraction / This is my one lucky prize / Isolation, Isolation, Isolation, Isolation»
[Joy Division, Isolation dall’album Closer (1980)]

Invecchiando, non diventiamo più saggi, ma solo stanchi. Queste parole vengono proferiti da un grottesco simil-cowboy in una tavola calda all’interno del documentario Almost There. Per la regista svizzera Jacqueline Zünd, classe ’71, primo dei due sguardi femminili proposti per l’8 marzo dal festival del cinema svizzero a Venezia curato da Massimiliano Maltoni, la vecchiaia diventa lo specchio o il pretesto attraverso il quale osservare tre individui, innominati fino ai titoli di coda, ovvero Robert, Steve e Genji. Sono tre uomini alla ricerca di un senso per la loro vita o di una felicità nelle piccole cose, che seguono i loro sogni durante la vecchiaia, senza paura della solitudine o della morte, con i loro pensieri, le loro riflessioni e i loro percorsi spirituali e umani descritti mediante una costante voce fuori campo e una perpetua colonna sonora d’atmosfera. Robert gira per la California in un camper per un viaggio introspettivo, Steve è uno stand-up comedian britannico e una drag queen, Genji ha “dedicato la propria vita a se stesso” e tiene lezioni di dizione per seguire il suo sogno di diventare un cantastorie per bambini nelle scuole. Le tre non-storie, geograficamente dislocate e distanti, sono mostrate con un costante montaggio parallelo, che affianca costantemente le immagini e le idee dei tre personaggi, creando un paragone che ha di per sé un valore filosofico non indifferente: che sia volontario o no, queste tre vite corrispondono, in maniera un po’ larga, ai tre stadi della vita di Kierkegaard. Ma se il teologo danese metteva questi tre stadi della vita in sequenza, senza una corrispondenza realistica con quello che è l’uomo oggi, la Zünd, paragonando queste tre figure appartenenti più o meno alla stessa età e allo stesso momento della loro vita, conferisce libertà all’uomo di esprimere le proprie necessità nel momento che più si addice a ognuno nei singoli casi distinti. Steve è la vita estetica, basa la propria esistenza sul divertimento e sul piacere, sul connettersi col lato più insito della propria sessualità, viaggiando senza pudore, rimanendo connesso col proprio Sé e così facendo aprendosi all’altro e alla gioia di ogni essere umano nel suo paradiso personale, una città balneare spagnola; Genji è la vita etica, perché si pone uno scopo e si assume le responsabilità del proprio tentativo di perseguirlo, uno scopo legato ai bambini, alla famiglia, è un uomo sposato che trova nella propria singolarità la gioia del sapere chi è davvero; Robert è la vita religiosa, lo stadio della fede, l’ascesi, un lupo solitario che vaga per ambienti casti alla ricerca di se stesso.

Per quanto siano suggestivi i personaggi, il senso stesso dell’operazione e il senso di trance che la regista riesce a infondere nello spettatore con la malleabile costruzione delle immagini vaghe e poetiche, permangono delle perplessità, che si intensificano più il film procede nella sua durata – un’ora e venti che sarebbe potuta essere accorciata, dando più spazio all’immedesimazione e all’intensità della visione. Innanzitutto, per quanto riguarda il fatto che è sempre più dilagante una tipologia di documentarismo non sempre originale, concentrato sulle figure assurde del moderno, con la macchina da presa accalcata sulla figura umana al punto da non lasciare a essa alcuno spazio. Non siamo ai livelli di retorica insopportabili di Fragments du Paradis, sia chiaro, e anzi in più momenti la Zünd evita la retorica trasportando l’estetica del suo film più nelle vicinanze del road-movie che del documentario d’osservazione, ma la musica costante a volte crea il rischio di un’anti-originalità che poco si addice al layout generale del progetto. In particolare nel caso di Robert, la presenza costante della mdp e della troupe sembra in generale privare al personaggio la solitudine e l’isolamento che sono così integrati nella sua way-of-life – e, di per sé, anche nel motivo per cui andrebbero filmati e studiati, quindi anche nella vera e propria costruzione tematica del film. In un modo o nell’altro, tuttavia (e anche questa è la magia del cinema), questa privazione della solitudine del personaggio finisce per accentuare la trance dello spettatore e quindi a sottolineare la sua solitudine, nella condizione di osservatore passivo di uomini che filmano uomini. In ciò, la retorica delle parole e della musica finisce per farsi sostituire dalla potenza delle immagini e di una riflessione, anch’essa forse involontaria, su cosa può fare il cinema per ravvivare il rapporto tra spettatore e personaggio, tra l’immagine proiettata sullo schermo e l’occhio che, nel suo, proietta invece pensieri e immedesimazioni, che diventano dunque altri immagini, soggettive e pensieri. Ed è giusto che sia così, in un così lucido e libero sguardo imperfetto di una donna verso gli uomini, che ha molto più da dire del recente sguardo di uomini verso le donne che abbiamo potuto vedere in Nome di donna: questo 8 marzo, questo “lotto” marzo ha più senso con la Zünd che con Giordana.

Nicola Settis