3 Ottobre 2016 -

ALGOL. TRAGÖDIE DER MACHT (1920)
di Hans Werckmeister

Nella costellazione di Perseo, e questa è astronomia, brilla una stella multipla che la scienza chiama Algol. È una stella variabile, soggetta a brillamenti e continui spostamenti causati dalle tre stelle in movimento e sovrapposizione di cui è composta. Per via della sua particolare conformazione e del suo aspetto, e qui passiamo alla Storia delle culture, sin dalla primissima scoperta Algol è sempre stata una stella associata a sangue e violenza, simbolo dell’instabilità, simbolo luciferino, fino a essere popolarmente – e non solo – denominata “la stella del demonio”. Inevitabile quindi che le culture letterarie e poi cinematografiche, e qui veniamo finalmente alla preziosa riscoperta del film muto fino a pochissimi anni fa dimenticato e considerato perduto Algol. Tragödie der Macht (1920) di Hans Werckmester, abbiano preso a piene mani da questo immaginario demoniaco, intriso di leggende popolari e di suggestioni già condivise.
Presentato alle Giornate del Cinema Muto di Pordenone, giunte quest’anno alla trentacinquesima edizione, nel restauro (eccellente ma ahinoi digitale, fra i pochissimi DCP di queste Giornate eroicamente votate anima e corpo a rimanere un’oasi felice per l’ormai bistrattato 35mm) effettuato nel 2011 dal Filmmuseum di Monaco partendo dall’ultimissimo materiale disponibile – una copia nitrato incompleta imbibita e virata e una ristampa negativa completa ma in pessime condizioni – Algol è un film sul potere, su come logori l’uomo, su come forse nessuno ne sia degno. Commistione fra gli elementi fantastici del macchinario futuribile e dell’alieno satanico con l’estremo realismo, dalle parti della nuova oggettività, della Germania delle miniere della Ruhr in rivolta, lo straordinario film ritrovato di Hans Werckmeister trova il suo fascino proprio nella sua capacità di toccare diversi generi senza abbracciarne in realtà nessuno. Algol è il Faust che incontra l’espressionismo, è la fantascienza che incontra il melodramma, è il carbone che incontra l’elettricità, sono i moti sociali che incontrano il futurismo, è l’utopia che incontra l’avidità. Allegoria della Germania del 1920 in grado di anticipare di sette anni – al di là di quelle che saranno le innovazioni tecniche a passo uno addirittura in meglio, a nostro avviso – il ben più noto e acclamato Metropolis langhiano, tenendo un occhio a Goethe e uno al futuro dell’energia globale, Algol è la classe dei minatori che va al potere e da questo potere, al pari di chi lo esercitava prima, si fa obnubilare, inaridire, corrompere, e infine rovesciare, con la ribellione da parte dell’oligarchia avida e bucolica che quello stesso potere aveva creato. Ma finché rimarrà, a lato del Paese dell’Elettricità, quello del Lavoro, rimarranno anche gli ultimi vagiti di umanità, destinati ad avere l’ultima parola, l’ultimissimo atto, e il cuore di pietra del fantascientifico padrone del mondo si scioglierà nel melò di un vecchio e mai domo amore fra classi sociali.

Figlio del primo dopoguerra tedesco, con la popolazione che aveva perfettamente presente che cosa fosse una crisi energetica, Algol si apre mettendo in scena le classi sociali, i minatori e la padrona della miniera di carbone, in una ben precisa gerarchia apparentemente non ribaltabile. Arriva però un alieno proveniente dal “pianeta” – perdonerete anche voi la piccola imprecisione scientifica – Algol a regalare con fare satanico, a guisa di un novello Faust, all’umile minatore Robert Herne il segreto per diventare padrone del mondo: un macchinario per creare, imbrigliando appunto i raggi di Algol, energia elettrica costante ed eterna. È la rivoluzione industriale che tende la mano all’avvicendamento sociale, con Robert che abbandona la popolana fidanzata del tempo per prendere in moglie, una volta avviata la “biofabbrica” (curioso come anche l’ecologia fosse vista con sospetto) di elettricità, quella che era stata la sua padrona. Avvalendosi delle scenografie di Walter Reimann, che nel corso dello stesso anno costruì il set anche per Il gabinetto del dottor Caligari di Robert Wiene, Algol sfrutta, in ambito fantascientifico e melodrammatico senza mai dimenticare il proprio afflato sociale, tutte le principali caratteristiche dell’espressionismo tedesco: le atmosfere a cavallo fra la fantascienza e l’horror create con arresti e sostituzioni, dissolvenze e sovrapposizioni; le recitazioni dalla gestualità magniloquente e dalla mimica facciale esasperata; i viraggi al verde, al rosso, al viola; le profondità di campo a unico punto di fuga centrale; gli effetti speciali fatti di esplosioni e sparizioni; le inquadrature di sbieco – ancora poche, in realtà, ma già presenti – sui protagonisti; i cartelli profondamente letterari a scandire non solo i dialoghi, ma una vera e propria narrazione fatta di dettagli di scena, inquietanti filastrocche, pensieri e sentimenti dei personaggi, fino alle vecchie lettere che ritornano per riportare Robert Herne, ormai anziano e consumato dall’avidità per il suo stesso potere, all’umanità di chi ha amato.
Costituito da un prologo e da quattro atti che accompagnano il protagonista per venticinque anni di progressiva ascesa e marcescenza, Algol meticcia il dramma sociale con il progresso industriale, mettendo in scena da un lato come l’opulenza e il potere portino all’egoismo regale – e in questo senso, l’arredamento sfarzoso con tanto di trono della villa di Robert Herne non poteva che portare alla mente dei tedeschi gli appartamenti imperiali di recente abdicazione –, dall’altro come fra le riunioni di governo e le sommosse popolari non ci fosse poi grande differenza, dall’altro ancora come l’incedere del progresso porti anche le sue ombre, e possa fare paura. Robert Herne, accecato dalla ricchezza e dal potere, circondato dal suo stuolo di fedelissimi in una gerarchia piramidale che tanto ricorda, vista a posteriori, quella che sarà solo pochi anni dopo la Germania militarizzata e nazista, rifiuta di rivelare il proprio segreto e di concedere il macchinario all’umanità anche a costo di lasciar andare la figlia innamorata di un popolano rivoluzionario, e anzi pretende tributi, gabelle, promesse di fedeltà, altre ricchezze e altro potere. E quando, ormai vecchio e stanco, reso egli stesso un essere luciferino molto più dell’alieno che gli aveva cambiato la vita, cede nuovamente alla pietà e decide, con il ritorno del vecchio amore disperato, di donare al popolo la macchina, verrà rovesciato dal proprio stesso figlio, cresciuto nella bambagia, viziato, insofferente nei confronti del lavoro, festaiolo e puttaniere. “Ho fatto passare il potere per forza”, chiosa il protagonista nell’ultimo cartello del film, pentito e moribondo dopo aver distrutto quel macchinario infernale in grado di portare, insieme all’illusoria opulenza, una ben più profonda infelicità. Quella che era un’utopia di benessere comune e di uguaglianza sociale, dopo la scalata sociale che pervade la prima parte del film, ha finito nella seconda per dimostrarsi solo l’ennesimo palcoscenico dell’inadeguatezza umana.
Algol. Tragödie der Macht è un recupero prezioso, magnetico nei suoi guizzi espressionisti, acuto nella lettura politica, umana e sociale, capace di commistionare già nel 1920 generi cinematografici apparentemente inconciliabili, ardito nella sua ambientazione e nei suoi infiniti corridoi, impeccabile dal punto di vista della tenuta narrativa e non in ultimo abile a danzare sul confine della retorica senza mai cadere, neanche negli istanti di più languido melodramma fra amori che tornano, figlie perdute e figli mostruosamente inumani, nel possibile stereotipo. È un film drammaticamente sottovalutato, che andrebbe invece inserito nelle antologie, fra i grandi capolavori del periodo, fra Caligari e Nosferatu, fra Metropolis e Mabuse. È un film che porteremo a lungo negli occhi e nel cuore, e che già vorremmo rivedere.

Marco Romagna

“Power” (1920)
99 min | Fantasy, Sci-Fi | Germany
Regista Hans Werckmeister
Sceneggiatori Hans Brennert, Friedel Köhne
Attori principali Emil Jannings, John Gottowt, Hans Adalbert Schlettow, Hanna Ralph
IMDb Rating 6.9

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