Rigorosamente scritto in maiuscolo, ROMA non è la nostra capitale, ma il quartiere di Città del Messico dove è ambientato l’ottavo film del regista messicano Alfonso Cuarón. È un melodramma familiare declinato al femminile, che probabilmente non sarebbe dispiaciuto a Douglas Sirk e che presenta non pochi punti in comune con Lo specchio della vita. È la storia di una domestica di discendenza mixteca in una famiglia borghese nella capitale messicana nei primi anni ‘70, in cui le tragedie di lei si mescolano con i drammi della matrona della famiglia mentre sullo sfondo ci sono un agitato scenario storico, politico e culturale, il ritratto della società borghese dell’epoca e diversi cenni autobiografici. La loro vita scorre su uno sfondo sociale e politico decisamente delicato, il Messico è nel pieno boom caotico post mondiali di calcio del 1970 – riprodotti da un manifesto nella casa dei bambini – ed è un paese che si sta arricchendo velocemente, dove le differenze di classe esplodono in modo possente: non c’è l’acqua in campagna mentre in città si vive nel lusso, il 1968 che ha visto i morti per le strade è vicino e le violenze sono ancora nell’aria.
Stilisticamente il film è diverso dai precedenti di Cuarón, e probabilmente più maturo. Il piano sequenza e il rifiuto del decoupage classico rimangono come elemento fondativo del racconto, ma alla steadycam si sostituisce il cavalletto con panoramiche e carrelli rigorosamente laterali. Il risultato è un linguaggio formale incredibilmente efficace nel raccontare gli ambienti e il rapporto tra il personaggio, lo spazio scenico e lo spazio filmico, un lavoro che può ricordare quello di Miklós Jancsó o Max Ophüls. Il rifiuto del montaggio è spezzato da alcune scene che invece sono pezzi di grande montaggio classico (come la macchina del dottore che entra nel cancello per un pelo), e questa apparente incoerenza è sintomo di una grande libertà stilista dell’autore, più interessato all’efficacia narrativa della scena e del film tutto che non ad una forzata coerenza registica. A rafforzare questa già elaborata forma visiva c’è la fotografia in bianco e nero curata dallo stesso Cuarón che lavora con finezza soprattutto a luce naturale, girando in digitale con l’Alexa 65, una camera digitale a 6.5K con un sensore che dovrebbe – dicono, anche se la patina digitalissima non parrebbe andare esattamente verso gli stessi risultati dell’emulsione – riprodurre il 70mm dei classici kolossal. E a questo si aggiunge un lavoro scenografico di altissima classe, per una ricostruzione di Città del Messico degli anni ’70 degna della grande epica romanzata di un David Lean.
L’altro grande riferimento di Cuarón è evidentemente il nostro neorealismo, sia per l’ambientazione storica (vicina al nostro dopoguerra), sia per i riferimenti che il regista messicano fa al nostro cinema, con fotogrammi e soluzioni che spesso sembrano uscire da un film di Visconti, di Antonioni o di De Sica. Forse a un certo punto il citazionismo è eccessivo, ma è coerente anche con un discorso che va al di là del film: Cuarón è un borghese, e perciò il suo punto di vista è quello della classe alta mentre racconta le vite delle povere cameriere. È evidentemente lo stesso sguardo che hanno avuto i nostri grandi registi di quegli anni, restituendoci comunque dei ritratti toccanti e per nulla lontani dalle vite che certamente non gli appartenevano. Anche Cuarón riesce con questo lavoro a realizzare un onesto ritratto dei conflitti interni e della gerarchia sociale al tempo della sua adolescenza, un periodo nella storia che ha lasciato cicatrici in lui e in tutta la società messicana, e lo riesce a fare proprio grazie alla forma che è anche una distanza. I carrelli e le panoramiche tanto estetiche e tanto “belle” sono questa distanza dalla vita di Cleo, e Cuarón le sceglie non come rigore programmatico e costruito, ma come unica via possibile per rimanere sincero. È lontano da lei come sono lontani dalla sua vera vita tutti i componenti della famiglia borghese. Non sarebbe stata la stessa cosa seguirla e pedinandola con la camera addosso, come viene fatto troppe volte nel cinema contemporaneo, pensando di essere “con” il proprio protagonista e standoci invece spesso lontanissimo. Se, come già detto, stilisticamente il film è diverso dai precedenti del regista, soprattutto dai film che lo hanno consacrato come autore (Y tu mama tambien, I figli degli uomini e Gravity, con annessi Oscar), questo Roma è invece tematicamente coerente con il percorso in atto; il tema è ancora una volta la maternità e la fertilità già presente fin dall’esordio “almodovariano” Uno per tutte, per poi attraversare i primi discutibili film hollywoodiano-decadenti Paradiso Perduto e La piccola principessa fino a giungere ai film succitati.
Cuarón segue la sua protagonista fare da tata, da madre, ai figli di un’altra donna, finché non rimane improvvisamente anche lei incinta, ed è una gravidanza non voluta, né da lei né dell’amante furtivo. Una gravidanza alla quale corrisponde il disgregarsi del matrimonio della sua padrona, che a sua volta in questo fallimento familiare si riscopre madre dei propri figli. Il percorso di Cleo è da classico personaggio subulterno, e anche quando si avvicina alla padrona di casa alla fine lei rimane sempre la sguattera che, all’inizio come alla fine del film, pulisce casa. Ma questo non-cambiamento è coerente con la società messicana che di certo non mutava per le donne, ed è interessante da questo punto di vista un confronto con l’Antigona di recente visto a Cinema du Reel, che ci dice come le donne nel 2018 siano ancora subalterne in quella società. Non poteva esserci un percorso diverso per la nostra povera Cleo, ma c’è da sottolineare un gesto importante che fa dopo la gravidanza perduta: dice chiaramente che non voleva quel bambino. Un pensiero lontanissimo da una società pregna di cattolicesimo e di donne che non provano mai a uscirne.
Tornando al punto di vista visivo, il film ha scene visivamente pazzesche con l’acqua spesso protagonista: inizia con l’acqua sporca che pulisce il pavimento del cortile, proprio in acqua nel terzo e ultimo atto abbiamo LA scena madre, in cui la protagonista, senza saper nuotare ma con la fedeltà e il coraggio dell’affezione, salva la vita a due dei bambini in mezzo a un mare violento, e in mezzo di acqua ce n’è tanta altra, per pulire e per dissetarsi, per rompere la placenta e per giocare, liquido del ventre materno e fonte battesimale. Altra sequenza straordinaria del film è quando Cleo va alla ricerca di Firmin, il ragazzo padre del bambino, e scende dal bus in un luogo pieno di pozzanghere (ancora acqua che brilla sullo schermo) che deve attraversare con fatica, mentre sullo sfondo abbiamo un comizio politico in cui si parla proprio dell’acqua che manca alle campagne. Si susseguono poi laghi, bevande a capodanno, pioggia, grandine, l’acqua per spegnere gli incendi e l’acqua come luogo della vita, o forse della morte, come nel finale.
Oltre all’acqua acquistano peso anche gli altri elementi della natura, soprattutto il fuoco e la terra: il fuoco in una delle scene più stranianti del film, che sembra una preghiera pagana, un rito ancestrale davanti alla violenza inarrestabile della natura (ancora la morte); e poi la terra, la spesso citata ma mai vista terra d’origine della protagonista, i campi dove si fanno gite e anche il fango delle periferie degradate, evidente riconciliazione di Cuarón con la sua terra natìa e la memoria che ne ha di essa, luogo ancora al contempo di vita e di morte. E oltre agli elementi c’è il mondo animale, e soprattutto i cani, a partire dal cane di famiglia Borras, membro ufficiale, voluto e amato anche se continua a riempire di escrementi tutta la casa altrimenti pulita e patinata, o dall’altra parte i cani impagliati nella villa in campagna, trofei ora morti e ricordo di una vita passata. Un lavoro sulla natura che ogni tanto irrompe nella città, nelle stanze borghesi, rimettendo la protagonista e il suo dramma in contatto e in relazione con il cosmo tutto, con la natura, con gli altri personaggi e anche con la storia politica (la violenza degli scontri che danneggia irrimediabilmente la sua gravidanza).
In questa mistica cosmogonia ha peso fondamentale anche ciò che è possesso dell’uomo. L’automobile in primis, in modo evidente con la macchina troppo grande e troppo lussuosa per entrare senza fatica nel garage o che si incastra tra due camion, una macchina che si riconcilia con il suo spazio solo sul finale, nel passaggio dall’auto di lusso a un’utilitaria. Sul luogo-casa invece viene fatto un lavoro molto classico sugli spazi e sul modo in cui la protagonista li attraversa e li possiede, e anche lì il luogo dove si trova più a suo agio è la camera da letto dei bambini, i suoi due preferiti. Ultimo ma non meno importante elemento drammaturgico è il cinema stesso, inteso proprio come il luogo che accompagna e scandisce i momenti chiave della narrazione: l’appuntamento e il sesso, l’annuncio della gravidanza e l’abbandono, e infine la prova del tradimento del padre. In questo faraonico cinema di Città del Messico i film proiettati fanno da ironico contrappunto alla situazione, l’annuncio della gravidanza con Luis De Funes che si schianta in aereo e il tradimento del padre con Abbandonati nello spazio a ribadire l’abbandono subito dalla famiglia, oltre che a essere una divertita autocitazione di Gravity.
ROMA è un film complesso, è indubbiamente il più personale mai realizzato da Cuarón , un fluviale viaggio in una cosmogonia stratificata dove ogni parte è in relazione con la protagonista e con l’universo intero. L’esempio più forte di questo sono le due scene madri, la già citata scena in mare e il parto, una scena forte, che prende al cuore. Un viaggio interiore ma esternato alla ricerca di una serenità e di una riconciliazione con la realtà che avviene nel finale, solo appropriandosi veramente (dopo diversi traumi) di quanto già aveva all’inizio. Un grande film prodotto, come molto del programma di Venezia75, da Netflix, che uscirà però anche al cinema, sul grande schermo, nel buio delle sale. Dove va visto. Necessariamente.
Riccardo Copreni, Claudio Casazza