15 Settembre 2019 -

THE CRIMINAL MAN (2019)
di Dmitry Mamuliya

Sembra un altro film, forse l’ennesimo, sul vedere. Ma se The Criminal Man fosse invece un film su cosa lascia, all’interno di noi, l’avere visto? Un giovane vice-ingegnere si ritrova, per puro caso, ad assistere all’omicidio di un famoso portiere di calcio georgiano, e qualcosa in lui si rompe per sempre. In incognito si presenta al funerale, e poi continua ad assistere nell’ombra alla vita della famiglia di quella vittima. Reiteratamente torna sul luogo dell’omicidio, lo scruta, lo scompone, cerca di apprenderne ogni frammento, fino a trasformarlo in una pura e sempre più bruciante ossessione. Quel suo vedere (o meglio avere visto) diventa uno scopo di sguardo quasi lombrosiano verso i caratteri dei criminali, nel tentativo di trovarne caratteristiche e misteri; anche l’ossessione di quello sparo diventa lo spettro di qualcosa molto più ampio ed espanso che guarda al Male, come alla possibilità che attraverso il Male qualcuno possa “significare” qualcosa. Ed ecco l’atto, il suo acquisto di un’arma e di conseguenza il suo calarsi un altro ruolo, quello che che da osservatore diventa attore, protagonista di nuovi crimini verso vittime apparentemente casuali. In un romanzo di formazione di un delitto ciclico e astratto che diventa ben presto elegia del viaggio mentale e personale, attraverso una coscienza umana fragile che cambia e si trasforma: il dualismo tra volontà di auto-affermazione e sviluppo di questo morbo omicida è in realtà un senso del punto di fuga di uno sguardo smarrito, traumatizzato, che non riesce più a comprendere ciò che vede.

Con una personale e rigorosissima idea di regia, Dmitry Mamulya si sofferma su una specie di geneaologia del crimine (e soprattuto della percezione esterna di esso) e di come esso posa modificare il corso delle cose. Un viaggio nella malattia e nell’ossessione espressa attraverso una soggettività decostruita da un atto del quale il protagonista è semplicemente casuale testimone. Una mappatura costruita attraverso una visione che, sempre più intimamente patologica, dall’anima si espande pian piano alla rete di rapporti personali che costantemente deve affrontare. Mentre i media declinano e amplificano l’omicidio, il nostro protagonista si sente finalmente “protagonista” di qualcosa, partecipe di un atto di cui sarà l’unico osservatore; nel momento in cui l’opinione pubblica di una nazione si interroga su quell’omicidio ecco che la sua monotona vita cambia per sempre perché, in un certo senso, sono solo i suo occhi a poter celare e conservare la verità. Forse anche per questo resta in silenzio con tutti elaborando un morboso rapporto di mimesi con il crimine, prima da rudimentale investigatore e poi nel controcampo (im)possibile di un assassino. In una dialettica puramente dostoevskijana, ecco che il fuoco ora si sposta proprio sull’oggetto “Male”, nel sua dissezione attraverso il comportamentismo di questo omuncolo stritolato dagli eventi e schiavo della sua visione. I labili confini si sfaldano, quello tra ossessione e follia, quello tra etica e dolore, e quello appunto tra sguardo e atto. Gli eventi sfuggono di mano, soprattutto per chi nella vita mai ha scelto; e quindi è lo stesso Male ad agire e prendersi gioco della Storia, relegando alla casualità il motore delle cose e del loro sfaldarsi, del loro implodere, del loro fallire.

Presentato fra gli Orizzonti di Venezia76, The Criminal Man (in originale Borotmokmedi) è un film dispersivo, glaciale e angosciante, che si apre sull’infinito campo dell’omicidio (in cui le figure nel paesaggio appaiono così lontane quasi da non esser percepite) per poi stringersi fianco fianco al protagonista, e infine lasciarlo ancora andare ed errare nel suo tentativo di ricostruzione. Il tempo si espande e si dilata, quasi come se la malattia di quel Male lo corrodesse, avvolgendo le immagini di una progressiva patina materica nella sua greve consistenza. Sullo sfondo di un paesaggio industriale nebbioso e indefinito, questo ritratto psicologico e ambientale senza apparente logica assume sempre più un substrato quasi teorico della visione (e sulla visione). Quello che noi guardiamo non è altro che il riflesso della ri-costruzione di chi ha visto qualcosa, e del suo drammatico tentativo di emancipazione di/da ciò che ha visto. Simbolo ne è il momento in cui lui si sdraia nel campo d’indagine dell’omicidio, assumendo la stessa posizione del cadavere quasi per avere anche lo stesso punto di vista (ipotetico) di chi dallo schermo sparisce dopo la prima scena, oppure quel pianosequenza/camera car finale di sfocature e di doppi piani d’azione e narrazione, cortocircuiti di uno smarrimento di sguardi, parole e sangue. Filmata con rigore stilistico e una lunga serie di piccole invenzioni pittoriche (da Anton Gromov e Alisher Khaidkhodzhaev), questa seconda opera di Mamulya si muove nella direzione di giallo alla rovescia, nella serrata destrutturazione di un corpo narrativo e nel tentativo della costruzione di un altro, come se il film stesso fosse un ponte possibile del visibile e dello sceglibile che attraversa una (nessuna o tutte le possibili) vita(/e). In fondo si tratta sempre di una lotta psicologica, al di là del thriller e del dramma, nella vacuità iper-realista di uno spazio che non può dare risposte. Affascinante e misterioso, spesso imperscrutabile e inspiegabile, con quello svelamento finale del costituirsi come rilevazione dell’aver visto ciò che (forse) non si sarebbe dovuto vedere. Una domanda che tutti dovremmo, sempre, porci.

Erik Negro

“The Criminal Man” (2019)
N/A | Georgia / Russia
Regista Dmitry Mamuliya
Sceneggiatori Archil Kikodze, Dmitry Mamuliya
Attori principali Natalia Jugheli, Vladimer Kobakhidze, Giorgi Petriashvili, Anna Talakvadze
IMDb Rating N/A

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