15 Agosto 2019 -

143 RUE DU DÉSERT (2019)
di Hassen Ferhani

Un road-movie alla rovescia. O meglio, ciò che rimane della strada. Hassen Ferhani stava guidando lungo l’autostrada Trans-Sahariana nel deserto algerino, a circa 400 km da Timimoun, con il suo amico e scrittore Chawki Amari – autore di Route One, ritratto/diario di incontri da viaggio divenuti romanzo appassionato di asfalto e di sabbia – quando ha incontrato Malika. Un’anziana signora, imperturbabile nelle sue rughe, che gestisce uno pseudo-bar su quella via maestra dispensando the e aforismi quasi fosse un totem che veglia su quella straordinaria piana arida e ventosa. Sarà dunque la strada a muoversi verso quel luogo, a condensarsi in quei pochi metri quadrati, svelando storie e percorsi, rivelazioni e segreti, racconti ed esistenze. Siamo quasi nel centro geografico dell’Algeria, e chi transita da Malika definisce una mappatura fra chi viaggia verso il sud di Tamanrasset e il nord di Algeri, fra chi guida per lavoro e trasporto o chi siede sulla moto per scoprire frammenti di deserto. La capanna è meno di venti metri quadri, spersa nel nulla, aperta all’immaginazione. Un luogo di pace, riflessione ed energia, come afferma lo stesso Ferhani, che si apre quotidianamente verso il mondo, immobile e immutabile (?) nel continuo movimento. Con quella porta, quella fessura che somiglia allo schiudersi dell’otturatore, che definisce ciò che sta dentro e fuori campo attraverso la luce arida del sole. Un confessionale del deserto dove i racconti si fondono e si definiscono, anche davanti alla macchina da presa.

Nell’interessantissimo Roundabout in My Head (2015), Ferhani aveva filmato per due mesi i lavoratori dei mattatoi di Algeri, mentre qui è Malika a scandire questa questa narrazione embrionale dell’incontro, del caso, del destino, che rifiuta ogni tipo di costruzione e di “finzione”. Quello che guarda Malika è esattamente ciò che vediamo noi nei quadri incorniciati e quasi sempre interni di Ferhani, e il rapporto di unità che viene a crearsi è qualcosa di estremamente diretto che amplifica la nostra conoscenza di lei e della sua porzione di spazio. Non sappiamo da dove provenga, la sua origine rimane quasi nell’ombra, conosciamo solo la sua voglia di rimanere ancorata a quel luogo nonostante i tempi siano cambiati e nulla paia essere più come prima. L’armonia di quell’interno non è corrotta dal caos esterno, tutto rimane incapsulato tra le mura di quelle parentesi apparentemente astratte. Tutto pare essere apparenza, illusione di una durata infinita di campi stretti (spesso la macchina da presa rimane fissa su di lei o su coloro che incontra) e di embrioni di conversazioni accennate (il passato, la prigione, la vecchiaia, il tempo, la politica) e senza direzione. Una visione di passaggi in cui tutto rimane in medias res, traiettorie senza inizio né fine. Come se quelle figure esistessero solo per noi, nel momento in cui vengono filmate. Sta qui il lavoro dello strumento di Ferhani, quello di interpretazione di elementi e di frammenti della realtà, senza manipolazioni, con la ripetitività (e forse pure la noia, ben venga!) che diventano fondamentale condivisione, partecipazione collettiva al lavoro di mappatura e senso stesso dell’esistenza di Malika. In un doppio incontro di luoghi e/o persone, o forse nel movimento di una vita attraverso l’attesa, lo stesso che il sole crea all’interno dello spazio con il variare delle ore e delle stagioni. Diverse tonalità che si fondono, irriconoscibili come l’attimo.

In fondo è anche un film politico 143 Rue du Désert, a Locarno fra i Cineasti del Presente e poi “Dalla terra alla luna” al DocLisboa. In primo luogo sulla democrazia della cinepresa, sull’espressione di abitare un doppio spazio (la taverna come l’inquadratura) e di esprimere le proprie opinioni. L’Algeria di oggi, i barlumi di una speranza del parlare e dell’ascoltare, della possibilità di connessioni e riflessioni – emblematica la scena alle sbarre, il guardare attraverso un impedimento, lo svelarsi della messa in scena di se stessi. Fra dialoghi anche depistanti, sulle tracce di un passato sconosciuto. Malika inizia a guardare in macchina, ad aprirsi di fronte a essa quasi come se il cinema fosse un confessionale in cui ribaltare le parole ascoltate durante tutti questi anni. Qualcosa però minaccia quell’equilibrio fragile della sua esistenza, del suo essere il centro di quel piccolo mondo (una volta) antico. Man mano che la macchina da presa amplia il suo raggio d’azione comprendiamo come anche quella terra stia cambiando; una nuova, gigantesca e spaventosa stazione dei camion – appare quasi come un astronave nell’unica scena in cui lei lascia quella casupola per guardare in faccia il mostro – potrebbe toglierle anche l’ultimo sostentamento possibile, ovvero tutti i suoi avventori. È la desertificazione del deserto, è l’oasi tagliata come fosse un ramo secco. Così la riflessione si amplia sul senso più espanso dello sviluppo, della crescita, dello spazio, di quella ricchezza apparente che ancora una volta destruttura un ambiente relegandolo a un aridità ben più pesante di quella geologica e fisica. Intanto Malika resta lì, enigmatica e fiera, con il suo sguardo ipnotico e lontano. Il dramma e la poesia del mondo esterno si consuma sulla strada mentre lei osserva, riflette e ci interroga con i suoi occhi; aspettando che ancora una volta sia la strada, e tutti i suoi abitanti, a bussare verso la sua porta. Dall’universale al particolare, il viaggio di un deserto condensato in un numero civico. Alla rovescia di un road-movie – come se ne potesse esistere una dritta.

Erik Negro

“143 Sahara Street” (2019)
100 min | Documentary | Algeria / France / Qatar
Regista Hassen Ferhani
Sceneggiatori Hassen Ferhani
Attori principali Chawki Amari, Samir El Hakim
IMDb Rating 8.4

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